Di Adriano Marinensi – Conosciamo per esperienza diretta, in Umbria, la paura, i disagi, i lutti, le distruzioni di quando la terra si mette a tremare. Ci sono ancora le macerie da rimuovere dall’ultimo sisma; e le immancabili polemiche sulla ricostruzione al rallentatore. Abbiamo appena trascorso un Natale abbastanza sereno. Non fu così in Irpinia, 40 anni fa, nel 1980. “Dio ci salvi, è il terremoto!” S’udì questo grido angoscioso da un capo all’altro di un territorio molto vasto che misurava migliaia di chilometri quadrati, nel triangolo Salerno, Napoli, Avellino.
Alle 19,35 del 23 novembre, gli strumenti del Centro di sismologia registrarono una scossa del X° grado della Scala Mercalli; affermarono i tecnici che, nell’epicentro, aveva liberato una quantità di energia equivalente allo scoppio di 35 milioni di tonnellate di esplosivo. Con l’effetto di una catastrofe per la parte fragile delle antiche costruzioni di campagna e per la parte moderna, costruita dai palazzinari che odoravano di malavita lontano un miglio.
Tantissimi furono sorpresi in casa perché accadde di domenica, all’ora di cena. Ci arrivai alcuni giorni dopo e vidi minuscoli centri abitati rotolati giù nei dirupi. Come al solito, le notizie sull’entità dei danni e dei morti cominciarono a salire di ora in ora, e presto si ebbe la dimensione reale di quanto era accaduto. Si alzarono in volo gli elicotteri – ricognitori ed arrivarono le prime immagini sconvolgenti. Molti collegamenti stradali interrotti e la “macchina dei soccorsi” a rilento che fece arrabbiare vivacemente il Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Pronunciò, in televisione, un J’accuse un po’ sopra le righe. Comparvero, in quella parte del Paese, talune miserie sociali incognite e accrebbero la protesta. Ed anche la mobilitazione generale per portare aiuto ai 280.000 rimasti senza casa, seppellire i quasi 3.000 morti, curare più di 8.800 feriti.
Ci si misero pure il maltempo, il freddo e il caos sulle poche strade transitabili per via dei mezzi di trasporto dei soccorritori che arrivavano e dei terremotati che fuggivano. Parve l’effetto improvviso dei bombardamenti che avevano devastato le città durante l’ultima guerra mondiale. E le sirene d’allarme non avevano neppure suonato. Pure Napoli venne scossa. Una Napoli, in certi quartieri simile a quella del 1944, descritta da Curzio Malaparte nel romanzo “La Pelle”. Quand’era il tempo degli scugnizzi, di paisà e delle AM – lire.
Il Natale del 1980, che arrivò di li a pochi giorni, fu vissuto, da quelle parti, nella massima tristezza, listato a lutto, le lacrime al posto della festa; la baracca oppure la roulotte oppure la tenda al posto della casa che non c’era più. Macerie ovunque, soprattutto nelle periferie sperdute dove, ai sopravvissuti, i viveri e i medicinali caddero dal cielo. La desolazione dei piccoli borghi che, parimenti ai nostri borghi, parevano Presepi. Con tanti pastori, però a guidare le greggi rimaste senza ovili e le mangiatoie nascoste sotto le rovine delle stalle. “Dio ci salvi, è il terremoto!” A migliaia non si salvarono e, per tanta povera gente, tutto fu perduto. Persino la fede.
In precedenza, altri due eventi sismici avevano sconvolto l’Italia: nel Belice e in Friuli. La Valle del Belice, percorsa dal fiume omonimo, si trova in Sicilia, tra le province di Palermo, Trapani e Agrigento. Il terremoto lo investì duramente, il 14 e 15 gennaio 1968, con 5 forti scosse del IX° e X° grado Mercalli. L’epicentro tra Gibellina e Salaparuta, i nomi che sono rimasti per molto tempo nelle cronache quotidiane e nella mente degli italiani. Una prima scossa cosiddetta di avvertimento fece uscire dalle case gran parte delle popolazioni. Ma, anche qui, come poi in Irpinia, la precarietà delle costruzioni e l’intensità del fenomeno furono causa di enormi danni. Il pilota di un ricognitore riferì di aver visto “uno spettacolo da bomba atomica”. L’inviato del Corriere della sera scrisse: “La pioggia ha ridotto la piana ad un acquitrino dove tanti autocarri si sono impantanati”. Il Chirurgo di una delle tante strutture sanitarie di emergenza parlò di enormi difficoltà e di un intervento alla testa di una bambina trovata tra le braccia della madre morta. La stima peggiore quantificò le perdite in 370 morti, oltre ad un migliaio di feriti e circa 70.000 sfollati. A fare scandalo fu la ricostruzione andata avanti all’infinito, tra vicende di mala amministrazione e infiltrazioni mafiose.
Diversamente dal dopo sisma in Friuli dove, nell’arco di un paio di lustri, hanno portato a termine i lavori di superamento d’ogni precarietà. Eppure anche quelle zone furono assalite dal terremoto in maniera devastante. Ancora magnitudo IX° – X° grado Mercalli. I friulani lo chiamarono orcolat (cioè l’orco) e l’orco scosse 5 volte la terra: la prima il 6 maggio 1976 con epicentro nei pressi di Gemona del Friuli, le altre durante il mese di settembre. I comuni più colpiti nelle province di Udine e Pordenone. I morti furono 990, tantissimi i feriti, circa 45.000 i senza tetto. Un notevole contributo economico alla ricostruzione venne dagli Stati Uniti che, da quelle parti, avevano (ed hanno) la base aerea militare di Aviano. Proprio da Aviano – lo scrivo come notizia fuori testo – è decollato, il 3 febbraio 1998, l’aereo americano che, durante un volo di addestramento a bassa quota, recise il cavo della funivia di Cavalese, uccidendo 20 persone.
Ora, per sdrammatizzare, una curiosità: Negli anni dei tre terremoti sopra ricordati, vennero istituite, nel nostro Paese, altrettante imposte di scopo, in aggiunta alle accise gravanti sulla benzina. Interventi impositivi che avrebbero dovuto essere temporanei e finalizzati alle spese del pronto soccorso. Invece, così come in altre 14 occasioni, sono diventati definitivi. Il metodo bizzarro lo inaugurò Mussolini durante la guerra d’Etiopia (1935 – 36), l’ultimo balzello per il terremoto in Emilia (2012). In mezzo ci sono stati (cito i più noti) la crisi del Canale di Suez (1956), l’onda assassina del Vajont (1963), l’alluvione di Firenze (1966), le missioni militari in libano (1989) e in Bosnia (1996). E poi, curiosamente, il contratto dei ferrotranvieri, gli autobus ecologici, i programmi culturali, il decreto “salva Italia”. Insomma, la fiera dell’ “una tantum” trasformata in “una semper”, operando, in maniera disinvolta, su un bene di primaria utilità qual è il carburante.
P.S. : Tra le promesse elettorali di Matteo Salvini, c’è stata pure l’immediata cancellazione delle appena elencate “iniquità fiscali”. Le stiamo continuando a pagare come prima e, nel 2020, forse più di prima.