Di Adriano Marinensi – Questa volta, per raccontare la “sporca faccenda”, partiamo dalla fine. Dall’aula del Tribunale, quando entra la Corte e il Presidente, solennemente in piedi, legge la sentenza: “In nome del popolo italiano, visti gli articoli ecc. ecc., riconosce gli imputati colpevoli dei reati ascritti e li condanna alla pena dell’ergastolo”. Pena poi confermata in Appello e, in via definitiva, dalla Cassazione. I due ergastolani si chiamano Giovanni Fenaroli e Raul Ghiani.
La scena madre della storiaccia si svolge – sono 60 anni esatti – l’11 settembre del 1958, a Roma. La mattina di quel giorno, la collaboratrice domestica di Maria Martirano di anni 46, bussa alla porta di casa della donna, abitante in Via Monaci, nel Quartiere Nomentano. Nessuno risponde. Un coinquilino, con la passione della speleologia, si cala dalla sua finestra, riesce ad entrare da un terrazzino e trova la signora morta strangolata. Maria è la consorte del geometra Giovanni Fenaroli, industrialotto, navigante in acque alquanto agitate. Lui, quell’11 di settembre, si trova a Milano ed alla ferale notizia, mostra stupore e lutto profondo.
Si apre l’inchiesta. Tra gli interrogati, c’è un dipendente della Fenaroli Impresa, il ragioniere Carlo Sacchi, il quale riferisce di una telefonata Milano – Roma, fatta la sera prima da Giovanni a Maria, pressappoco di questo tenore: Mando da te una persona di mia fiducia, si chiama Raoul, per ritirare dei documenti assai importanti. Fallo entrare tranquillamente. Ma chi è questo Raoul? Agli inquirenti lo dice Donatella, figlia di Amalia Inzolia, una vecchia amante di Fenaroli: è un amico di suo zio Carlo. Dunque, l’identità del misterioso inviato a Roma è svelata: di cognome fa Ghiani, un elettrotecnico milanese di 28 anni.
Siccome il solito maggiordomo dei gialli classici, nella fattispecie non esiste, ecco il primo personaggio sospetto della tragedia: il marito dell’uccisa, ma lui ha un alibi di ferro. Più avanti si viene a sapere di una polizza d’ assicurazione sulla vita, stipulata, di comune accordo, dai coniugi Fenaroli a beneficio degli eredi in caso di morte di uno dei due. Fin qui nulla di strano. Un po’ strana invece una richiesta di modifica avanzata qualche tempo prima del delitto, con la quale viene richiesto di nominare unico beneficiario dei 150 milioni, il marito in morte della moglie, anche in caso di omicidio per rapina. La richiesta è stata avanzata da entrambi, ma la firma di Maria è falsa. La telefonata (per accreditare Raul Ghiani) e la polizza, messe insieme, sono due indizi che fanno quasi una prova. Indro Montanelli scrisse: “L’odio di Fenaroli per sua moglie, gli nacque in corpo quando si accorse che lei lo vedeva com’era e non come lui si sforzava di sembrare, cioè un pover’uomo qualunque”. Certo, un matrimonio svuotato d’ogni sentimento. Lui che correva dietro agli affari, peraltro in maniera maldestra, lei relegata ad un vivere senza entusiasmi. E quei milioni a fare da esca sconsiderata.
Gli inquirenti costruiscono un castello accusatorio nei confronti della coppia Fenaroli – Ghiani. Dietro lauto compenso elargito dal “commendatore” – sostengono – l’elettrotecnico è diventato il killer di Maria Martirano. Le cose sarebbero andate in questo modo: Il giorno prima dell’omicidio, Ghiani esce dal posto di lavoro, a Milano, verso le 18,30; un’auto sportiva lo aspetta nei pressi per portarlo velocemente a Malpensa, dove un aereo è in partenza per Roma, con arrivo prima di mezzanotte. Poco dopo quell’ora, suona alla porta della donna che apre senza alcun sospetto. Il sicario compie il suo dovere, quindi prende un taxi, va alla stazione Termini e riparte in treno da Roma alle 24,30. Tutto cronometrato dalla Polizia e teoricamente possibile, per organizzare il solito delitto perfetto, quasi tratto da un triller d’autore.
Il contesto nel quale è maturato l’omicidio sarebbe la condizione di crisi economica nella quale versa Fenaroli e la possibilità di risanarla con i proventi dell’assicurazione. In aggiunta, ci sono pure alcune telefonate dell’indiziato, pressoché inutili, da Milano ai suoi dipendenti di Roma che sembrano pensate apposta per rafforzare l’alibi. A tal punto delle indagini, la scena del delitto appare completa. Ci sono il geometra – commendatore (Giovanni Fenaroli), il ragioniere (Carlo Sacchi), l’elettricista (Raoul Ghiani). Quest’ultimo, lo strangolatore, descritto dalla stampa “amante del ballo, delle allegre compagnie, piacente alle donne”. In verità, tra i personaggi ed interpreti, c’è anche il comprimario Carlo Inzolia – l’anzidetto fratello di Amalia, trascorsa amante di Fenaroli – accusato di aver presentato il sicario all’ideatore del piano. Non rimane che andare in aula, nel “Palazzaccio” di Piazza Cavour, a Roma. L’Italia di quel tempo stava preparando, con fatica, il boom economico. Però, al processo non mancò mai il pubblico delle grandi occasioni. Le torbide e indefinite atmosfere del giallo di Via Monaci coinvolsero l’opinione pubblica, come d’uso, divisa su due fronti. Sono stati consumati fiumi di inchiostro, soprattutto sulle riviste intrise di scoop. E una valanga di retorica, spesso altisonante, dentro e fuori i Tribunali.
Non finì neppure con l’ultima conferma in Cassazione delle condanne all’ergastolo per la coppia diabolica. Raoul Ghiani, uscito di galera per grazia ricevuta dal Presidente Pertini, dopo aver scontato 25 anni, ha chiesto la revisione del processo. Fenaroli era morto dietro le sbarre nel 1975 e molti dei testimoni non c’erano più; neppure tanti delle migliaia di “spettatori” che, in attesa della sentenza di primo grado, bivaccarono, durante tutta la notte, davanti al Palazzo di giustizia. Un pubblico – si scrisse – da finale dei mondiali di calcio e la neonata T.V. italiana , con Lello Bersani, a sondare gli umori dei colpevolisti e degli innocentisti vocianti per ore.
Nella richiesta di revisione, Ghiani sostenne di essere stato coinvolto in un complicato giro di ricatti politici. Con dentro partiti, finanziatori dei partiti, fondi neri dell’Italcasse, dell’ENI e di altra losca provenienza. In casa Fenaroli erano nascosti i documenti comprovanti queste mariolerie. Maria Martirano sarebbe stata vittima del complotto, uccisa per impossessarsi del compromettente “faldone”. Ci furono anche resoconti giornalistici a sostegno di questa ricostruzione. Nell’ intrico, prospettato da Ghiani entrò pure un fatto molto strano e realmente accaduto: malgrado le ripetute perquisizioni eseguite nel laboratorio dell’imputato, soltanto dopo un anno, furono ritrovati, dentro un barattolo, i gioielli rubati in casa della morta. Messi lì – la tesi di Ghiani – da parte di qualche individuo misterioso Una narrazione un po’ fantasiosa che non parve credibile alla Magistratura e la richiesta respinta. Il “comprimario” della tragica rappresentazione Carlo Inzolia, prima lo avevano condannato, poi assolto.