di AMAR – Il mondo sta vivendo un momento difficile di ansia e sofferenza a causa della pandemia. La speranza, quasi certezza, è che il pericolo passerà, seppure in tempi non brevi. Invece, ci sta un “mostro” non ancora domato, a far paura in una landa desolata, tra Bielorussia e Ucraina, a poca distanza da Kiev. Non è un “faraone”, ma giace sepolto in un “sarcofago” custodito da una gigantesca “piramide” moderna, fatta di cemento armato, più alta della Torre Eiffel.
L’evento disastroso accadde la notte del 26 aprile del 1986, 34 anni compiuti appena pochi giorni fa. Nei pressi di un paesotto chiamato Černobyl, era in funzione una centrale elettrica a propulsione nucleare. La direzione tecnica dell’impianto volle fare un test sulla sicurezza, aumentando la temperatura del nocciolo con conseguente scissione dell’acqua di raffreddamento. Qualcosa andò storto e uno dei reattori esplose. Quella notte, nei campi li attorno, centinaia di altoparlanti del regime, montati su automezzi, gracchiarono: “Attenzione, attenzione! In seguito ad un incidente alla centrale, per assicurare completa sicurezza al popolo, è necessario evacuare le case.” Un popolo, da quelle parti, formato, per intero, da vecchi contadini, zappatori e allevatori, adusi a costumi antichi, ospitati in case di povera gente; insieme alle loro mucche, alle pecore, ai maiali, ai pollai pieni di galline. Una economia autarchica, fondata su un lavoro familiare, unico sostentamento per vivere.
Dovettero lasciare tutto e subito. Oltre 100.000 persone portate via in fretta e furia perché il tasso di radioattività nell’atmosfera, di solito intorno a quota 25, era arrivato a 200 e fino a 400. Una catastrofe ecologica con un numero di morti e contagiati – nell’immediato – quantificati in maniera assai diversa dal soviet e dagli organismi terzi. Non pochi fuggirono portandosi appresso il carro caricato alla rinfusa con le loro misere ricchezze. Come accade sempre nelle grandi emergenze. Rimase la desolazione e, in poco tempo, ciò che rimase andò in rovina.
Da parte del Regime sovietico – dopo un primo intervento operato dai Vigili del Fuoco e dall’Esercito per spegnere le fiamme – ci fu uno strano tentativo di chiudere il cratere causato dallo scoppio. Costruirono un disco d’acciaio (20 metri di diametro, peso 15 tonnellate); appeso con un cavo ad un elicottero, venne messo a fare da coperchio. Ci voleva qualcosa di più consistente. Allora, prese forma, attorno al reattore, la “camicia” di cemento armato, quasi una sepoltura, anzi una cattedrale nel deserto formatosi li attorno. Per costruirla ci vollero 400.000 metri cubi di calcestruzzo e 7.300 tonnellate di metallo per imprigionare 740.000 tonnellate di materiale contaminato.
Le radiazioni, impossibili da fermare, hanno cominciato a corrodere il “sarcofago” iniziale e, per evitare un’altra fuga inquinante, è stato deciso di costruire un secondo contenitore, con materiali maggiormente impermeabili, da posizionare sopra al primo. I lavori, per un miliardo di dollari, sono stati finanziati da 40 Paesi e serviti per costruire un gigante, alto 110 metri, lungo 150. A detta dei tecnici, dovrebbe proteggere il reattore esploso, per i prossimi cento anni. Perché, quel morto ancora vivo, è destinato a fare il testimone del disastro per tempi molto lunghi: l’uomo che fa lo stregone con l’energia nucleare, sa partire, ma fermarsi no.
Dall’impianto incendiato si levò una gigantesca nuvola che, sospinta dal vento, giunse fino ai cieli d’Europa, seminando particelle radioattive. In Italia, finimmo nel panico. Come per il coronavirus, non ci fu alcuna possibilità di arginare quest’altro pericolo vagante. Ci difendemmo con una serie di restrizioni di carattere personale e alimentare. No al latte munto dopo l’evento, no agli ortaggi, soprattutto le insalate a foglia larga, no al pascolo del bestiame sui prati. E le mamme che si misero a lavare spesso i capelli ai figli nel timore della pioggia invisibile. Contro la quale, si disse in giro, lo iodio poteva fare da deterrente e nelle farmacie le scorte sparirono. A Bergamo, un albergo che era dotato di rifugio antiatomico divenne meta di pellegrinaggio.
Qualche giorno dopo, il Corriere della Sera scrisse: “Ora la nube atomica fa paura anche in Italia. In poche ore si è passati dai toni rassicuranti del Ministro della Protezione civile ad una drastica Ordinanza del Ministro della Sanità.” Insomma, ci fu qui da noi, un bel po’ di allarmismo e confusione, per quest’altro “coronavirus” nascosto nell’atmosfera. Vivemmo anche allora, giorni difficili di ambascia e libertà limitata. Come al solito, ogni rilevante sciagura diventa utile per un serial televisivo di successo. Černobyl non fece eccezione. Mischiando verità e fantasia, effetti speciali ed emozioni forti, il “polpettone” ha avuto consenso di critica e pubblico.
La replica, in fatto di gravi incidenti alle centrali nucleari, si è avuta, in Giappone, a Fukushima. L’11 marzo 2011, un forte terremoto ha messo a dura prova l’omonimo complesso elettronucleare. Però, la causa dell’incidente, classificato di livello 7°, il massimo valore della scala di misura, è stato il conseguente tsunami che irruppe sulla centrale con onde alte più di dieci metri e provocò danni soprattutto al fondamentale sistema di raffreddamento dei reattori. Pure qui, come a Černobyl, la contaminazione è risultata vasta ed elevata, addirittura a carico del sottosuolo e del mare. L’OMS ha dichiarato che “l’effetto dell’incidente è stato molto più grave di quanto immaginato all’inizio”. I tecnici sostengono che occorreranno alcuni decenni per decontaminare le aree colpite e dismettere la centrale. Il costo: molte centinaia di miliardi di dollari.
Si può dire che Fukushima abbia avuto influenza sul referendum abrogativo, tenuto in Italia, l’11 giugno 2011. Il quesito chiese agli elettori: Volete che vengano abolite le norme che consentono l’adozione dell’energia elettrica con impianti nucleari? Il 94% degli aventi diritto rispose SI. Di centrali del genere, sul territorio nazionale, ce n’erano quattro: Latina, Trino Vercellese, Garigliano e Caorso, tutte chiuse, entro il 1990, per effetto del plebiscito popolare. L’ultimo termine per il loro smantellamento e bonifica ambientale è fissato al 2025. Intanto però, nel nostro Paese, messi insieme tutti i materiali radioattivi, continuiamo a conservare una specie di “atomica” residuale. Di rinvio in rinvio, ormai da 30 anni. Con una “ricaduta finanziaria” gigantesca.