Di Adriano Marinensi – Passarono pochi mesi da quel tentativo di Tito Zaniboni ed ecco entrare sulla scena del crimine Violet Gibson, inglese, di nobile casato, definita dalla polizia “alienata, fanatizzata da credenze religiose”.
Il 7 aprile 1926, in Piazza del Campidoglio, sparò al dux una rivoltellata che ebbe a procurargli – repertarono i medici – “ferita d’arma da fuoco, perforante le pinne del naso”. Una mira alquanto approssimativa che però, per poco, non lo fece secco. E gli valse l’onore della visita domiciliare di mezza Casa Savoia. Pietro Badoglio, Capo di Stato maggiore, ringraziò Domeneddio “per aver conservato all’Italia l’on. Mussolini”.
Alla notizia, ancora un mare di folla indignata ed un’ altra roboante allocuzione dall’affaccio sull’agorà. Per annunciare: “La voce è restata tonante, il cuore non ha minimamente accelerato i palpiti”. Cioè. Il coraggio ed il disprezzo del pericolo non sono venuti meno manco per un istante. Contemporaneamente, in altra sede (Palazzo Vidoni), il prode col naso incerottato di fresco, pronunziò – per illuminare la storia ed imbrattare i muri – la lapidaria frase: “Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se mi uccidono vendicatemi”. Su Violette Gibson non si poté fare vendetta in quanto giudicata incapace di intendere e di volere. La improbabile tirannicida se la ripresero i parenti e la riportarono nella “perfida Albione”.
Il 1926 fu un anno infausto per l’impavido dittatore. L’11 di settembre se ne andava da Villa Torlonia a Palazzo Chigi, quando, sul piazzale di Porta Pia, un giovane lanciò contro l’automobile una bomba. Un gran botto, 8 feriti tra i passanti e nessuna conseguenza per il Capo del Governo. Il quale, raggiunto tranquillamente il suo ufficio, “ha ripreso – batté l’Agenzia Stefani, fonte ufficiale del regime – le sue normali occupazioni”. E lui, dal “pulpito” di Piazza Colonna, ai romani assiepati: “Nel grido formidabile col quale mi salutate a questa ringhiera, io sento tutta la pienezza della vostra fede”. Alla stampa estera, enfaticamente: “Pochi minuti dopo lo scoppio della bomba, io ero al mio tavolo di lavoro a impartire gli ordini necessari per tutta l’Italia.” S’era quindi subito affaccendato per l’Italia “che si raccoglie – aggiunse – intorno al fascismo, come un blocco infrangibile.” Quella stessa Italia in piedi, la quale doveva essere “pronta a procedere decisamente verso le mete che la storia, la civiltà, il buon diritto, le hanno assegnato”.
Di primo acchito, il bombarolo di Porta Pia lo identificarono per Ermete Giovannini; risultò invece essere l’anarchico Gino Lucetti. In albergo lo avevano registrato come Germino Baldarono, commerciante milanese. Era stato assoldato in Francia da alcuni fuorusciti italiani, con il compito di far fuori Mussolini. Fu condannato, al pari di Zaniboni e Caperllo – a trenta anni di reclusione. Lo liberarono gli americani, nel 1943, e appena uscito dal carcere, la bomba di un aereo tedesco lo uccise. Manco fosse vero il detto : “Chi di bomba ferisce, di bomba perisce”.
Erano trascorsi appena una cinquantina di giorni dal “pasticciaccio brutto” di Porta Pia, ed ecco un’altra pistola aprire il fuoco sul novello Cesare. Siamo a Bologna. E’ il 31 ottobre 1926. Mussolini ha appena passato in rassegna le grintose legioni in camicia nera. Viaggia a bordo della consueta auto scura, alla volta della stazione, in mezzo a due cordoni di massima sicurezza. Massima, si fa per dire, perché un ragazzo, comparso d’impeto in prima fila, impugna una revolver e spara. Si chiama Anteo Zamboni, ha appena 15 anni e scarsa dimestichezza con le armi. Accanto a lui, c’è Alberto Pasolini, padre di Pier Paolo, che gli sposta il braccio e gli fa perdere la mira. Infatti, il proiettile sfiora l’uomo pettoruto sull’automobile, perforandogli solamente la “fascia mauriziana” indossata di tracolla sull’uniforme e finisce nel cappello a cilindro del Sindaco.
Gli squadristi bolognesi, questa volta, s’arrabbiano di brutto e fanno scempio del reprobo imberbe. Un linciaggio senza scampo. I tradizionali trent’anni di galera se li beccano, al suo posto, il padre Mammolo e la zia Virginia Tabarroni, accusati di essere gli istigatori dell’attentato. Stigmatizzato persino (l’attentato) da un Alto Prelato, dall’altare, a Napoli. Attribuì alla “Provvidenza Celeste, l’incolumità del Primo Ministro d’Italia”, da lui Alto Prelato definito “cooperatore del disegno Divino con la sua elevata missione”. Ebbero ad adontarsi pure il Re e l’intera Casa Savoia in un telegramma traboccante di stima e benevolenza. Per questo attentato, i sospetti sfiorarono addirittura l’alto gerarca fascista Roberto Farinacci, per il duce un figlioccio quasi quanto Bruto per Giulio Cesare.
S’era dunque contristato per l’evento l’augusto Sovrano, il quale, nel proclama del 26 luglio 1943, il giorno dopo aver fatto arrestare Mussolini, inviterà i suoi sudditi – “nell’ora solenne che incombe sui destini della Patria” – di riprendere “ognuno il suo posto di dovere, di fede e di combattimento”. Tutti meno lui: il 9 settembre del ’43, appena firmato l’armistizio, sarà già fuggito a Brindisi, sulla Corvetta Baionetta, con la Corte e una bella combriccola di Generali. In verità, di quella resa, siglata il 3 settembre a Cassibile, Pietro Badoglio darà notizia, dai microfoni dell’ EIAR, soltanto l’8 settembre, alle ore 19,45: “Il Governo italiano … ha chiesto un armistizio al Generale Eisenhower, Comandante in capo delle Forze anglo – americane. La richiesta è stata accolta”. Parve la fine di un incubo, invece mancava ancora la parte più cruenta del conflitto. Mancava – per fare un solo esempio, però mostruoso – l’eccidio perpetrato dai nazisti a Cefalonia (dal 22 al 28 settembre 1943) dove furono massacrati 4.750 Soldati e 341 Ufficiali italiani.
(continua)