Di Adriano Marinensi – A volerla collocare nel tempo, la vicenda umbra, qui appresso sinteticamente raccontata, occorre retrocedere di oltre mezzo secolo. Di cosa si tratta, ce lo facciamo dire da persona informata dei fatti, cioè dall’allora Vice Presidente della Camera dei Deputati. Lui se ne uscì così in Parlamento: “Si tratta di una delle più grosse speculazioni che siano state perpetrate nel dopoguerra”. L’argomento riguarda la Legge 9.10.1957, n. 976, comunemente nota, a quel tempo, come Legge speciale per Assisi. L’oggetto stava nel titolo: Provvedimenti per la salvaguardia del carattere storico, monumentale e artistico della città e del territorio di Assisi.
Dunque, una serie di norme aventi grande importanza per la valorizzazione e tutela dell’irripetibile patrimonio culturale del comprensorio, norme volte a rilanciare gli aspetti peculiari della città natale di S. Francesco. Lo scopo era nobile e infatti il provvedimento fu condiviso un po’ da tutti. La strategia si capiva già dall’art.1 che poneva “a carico dello Stato il restauro e il consolidamento delle opere monumentali e d’arte”. C’era dunque da aspettarsi un bel po’ di progetti e altrettanti finanziamenti pubblici, a beneficio di uno dei centri umbri più conosciuti al mondo.
Però, c’è un però. Una “manina”, in quella legge, ci infilò una disposizione che con la salvaguardia ecc, ecc. ci azzeccava quasi niente. E’ l’art. 15 che prevedeva, a vantaggio dei nuovi insediamenti produttivi nella zona industriale, l’esenzione da ogni imposta erariale, provinciale e comunale per la durata di anni dieci dalla istituzione dell’impianto. In buona sostanza e soprattutto grazie alla interpretazione estensiva (eccolo il paradosso giuridico!), era stato creato – a norma di legge – un vero e proprio punto franco, non solo per le nuove, ma anche per le aziende già esistenti. Entrarono nell’esenzione, per esempio, tutte le materie prime importate dall’estero come la farina, lo zucchero, le uova, il caffè, gli ingredienti per i mangimi e quant’altro serviva alla confezione dei prodotti finiti. Una porta fiscale spalancata; anzi, un portone che, nel tempo, fece entrare il buono, il brutto e il cattivo.
A qualcuno fu sufficiente impiantare una torrefazione, far arrivare il caffè crudo, tostarlo in loco, evitando il pagamento delle esose gabelle e rivenderlo sul mercato con utili enormi. Qualcun altro, che aveva due stabilimenti, uno ad Assisi ed uno a Napoli, importava materie prime a camionate, le nazionalizzava in esenzione da ogni e qualsiasi tributo, per metà neppure le scaricava, dirottandole in Campania. Insomma, una cuccagna. Onde evitare la evidente “anomalia” (parve una situazione di fiscalità platealmente sottratta) venne avanzata la proposta del contingentamento: fare cioè il calcolo della capacità produttiva dell’azienda in questione e rilasciare esentasse solo il quantitativo di materie prime necessarie alla lavorazione giornaliera in Assisi. Dissero, bell’dea. Però, non se ne fece nulla. Il Ministro delle Finanze, riferito, più tardi, al problema dei nuovi posti di lavoro, volle precisare che “le cinque torrefazioni di caffè, impiantate ad Assisi, occupano complessivamente 15 dipendenti, mentre hanno ottenuto esenzioni per 5 miliardi e 115 milioni”. Con un vantaggio accertato di 600 lire al kg. Insomma un inguacchio che impose la necessità della “bonifica morale” della legge 976 e l’esigenza del recupero erariale.
Ad intricare bene la matassa ci si misero in tre: la Burocrazia romana, la Magistratura e il Parlamento. Il Ministero delle Finanze, nel tentativo di limitare i suoi danni, prese a sfornare Circolari e Direttive in un senso ed in senso contrario, con disposizioni che procurarono soltanto disagio per controllori ed operatori seri. Decidendo su un ricorso, il Tribunale di Perugia si espresse a favore della tesi sostenuta dagli industriali (cioè, l’interpretazione letterale dell’art.15); la Corte d’Appello rovesciò la sentenza; la Corte di Cassazione ripristinò il giudicato del Tribunale a favore delle aziende. Sentenza, quest’ultima, confermata dalla Corte d’Appello di Roma in sede di rinvio. In Parlamento, cominciò la Camera (nel dicembre 1969) approvando il primo testo della legge di modifica della 976; il Senato vi apportò delle modifiche a favore della retroattività (il malloppo da recuperare era sontuoso); di nuovo alla Camera che escluse la retroattività; al Senato altra correzione ed altro esame alla Camera. Un balletto fuori da ogni buon senso democratico. A livello regionale, ci fu persino un tentativo di scaricabarile politico delle responsabilità e soprattutto delle disattenzioni che avevano contribuito a generare la “patologia”.
La legge – si potrebbe dire – attraverso il “filone positivo”, aveva fatto uscire dalle casse pubbliche utili finanziamenti per il restauro di Basiliche, Monasteri, edifici storici, testimonianze di grande valore culturale, per oltre 2 miliardi, andati a beneficio soprattutto del turismo religioso. La 976, al netto delle “deviazioni”, aveva prodotto anche interventi sotto forma di nuova imprenditorialità e qualche centinaio di posti di lavoro. Ma, l’esigenza di ripristinare la liceità fiscale si pose come prioritaria: una zona franca con i benefici di quella di Assisi non esisteva altrove, in Italia. L’interpretazione a maniche larghe dell’art. 15 ne imponeva un’altra (di interpretazione) autentica da parte del legislatore.
Alla fine della fiera, il 18 febbraio 1971, sul quotidiano La Nazione, apparve questo titolo: Approvata in modo definitivo la nuova legge speciale per Assisi. Forse si sarebbe potuto aggiungere: Finalmente! Ed ecco il testo: Art.1 La sfera di applicazione dell’art. 15 della Legge 9 ottobre 1957, n.976, deve intendersi riferita ai seguenti tributi, afferenti il reddito prodotto dalle imprese artigiane o industriali che hanno istituito i loro impianti a norma del predetto articolo: A) imposta sul reddito di ricchezza mobile; B) imposta comunale sulle industrie, i commerci, le arti, le professioni e la relativa addizionale provinciale; C) imposta di patente. Art.2) Per la riscossione ed il recupero delle imposte non comprese nell’elenco di cui all’articolo precedente, maturate all’entrata in vigore della presente legge, da corrispondersi da parte delle imprese alle quali è applicabile l’art.15 … l’Amministrazione finanziaria dello Stato, i Comuni e le Provincie sono autorizzati alla concessione di rateazioni, sino ad un massimo di 40 bimestri.
N.B. Per le sole due ditte principali – specificò il Ministro delle Finanze – erano in ballo oltre 15 miliardi di somme da restituire. Parve giusto al Relatore in Aula ribadire quanto evidenziato qui, in apertura dell’articolo: vale a dire “il completo distacco della norma fiscale dal contesto normativo di tutta la legge.” Dunque, giustizia era fatta. Però, in modo approssimativo e parecchie zone d’ombra rimaste su quella commedia dell’assurdo, durata 14 anni.