Di Adriano Marinensi – C’è stato, In Italia, un periodo non breve che potrebbe essere intitolato “la stagione dei sequestri”. Sequestri di persona, tutti a scopo di estorsione. Un periodo tribolato per tante famiglie, quasi un calo di civiltà, sopraffatta da una (pseudo) cultura criminale estranea alla storia sociale italiana e addebitabile unicamente al metodo perverso delle mafie. Il quotidiano “la Repubblica”, nel titolo di un articolo del 1989, ha scritto : In 17 anni, 600 sequestri. Una vasta associazione per delinquere, operante senza pregiudizi, verso il sesso e l’età (non vennero risparmiati neppure i bambini). Sola caratteristica, in ogni caso, la possibilità accertata di poter pagare il riscatto. Il giornale riassume il degradante fenomeno con questi dati: di quei 600 rapimenti, 441 vennero risolti positivamente dalle forze dell’ordine, mentre 152 rimasero senza esito investigativo; 2134 le persone arrestate perché coinvolte a vario titolo. Con un giro d’affari presunto intorno agli 800 miliardi di lire dell’epoca e con la ‘ndrangheta a prendersi la parte del leone. Dalla Calabria e Sicilia, regioni maggiormente coinvolte all’inizio (l’Aspromonte era la montagna simbolo dei nascondigli), il fenomeno si diffuse in quasi tutto il territorio nazionale-
Per la statistica, ancora grandi numeri: nel 1974 vi furono 40 sequestri, 1975, 62, 1976, 47, 1977, 75 (anno record), 1978, 43, 1979, 59, 1980, 38. Se la fonte d’informazione non fosse attendibile (“la Repubblica”, appunto), sarebbe roba da non credere. In soli 7 anni, con 358 rapimenti, l’“anonima sequestri” sembra diventata una potente “società per azioni” (criminali). Quello che gli inglesi chiamano kidnapping, se riferito ai bambini, è andato successivamente esaurendosi perché la legislazione è diventata più severa. Soprattutto dopo l’approvazione della Legge Rognoni – La torre del 1982 che pose le basi giuridiche per la lotta alle mafie, attraverso la possibilità di indagine patrimoniale dei soggetti indiziati di reato. Altre attività – il traffico di droga, per esempio – per tale malavita sono diventate meno pericolose e complesse, oltre che meno esposte dal punto di vista mediatico. Di quei 600 rapimenti, qualcuno vale la pena di raccontarlo.
In famiglia, come nelle casate nobili, usavano lo stesso nome ad ogni generazione: John Paul Getty, distinti, tra loro, con i numeri romani. Colui che rapirono a Roma, il 10 luglio 1973, si chiamava Paul Getty III, di anni 16. Viventi, in Inghilterra, c’erano pure suo padre Paul Getty II e il nonno ricchissimo Paul Getty I, una sorta di Creso, terribilmente avaro. Tanto da rifiutare qualsiasi pagamento di riscatto per la liberazione del nipote. Visto il modo di vita un po’ malandato del ragazzo – tra l’altro, lo avevano espulso da diverse scuole per comportamento non esemplare – il primo pensiero: ha organizzato tutto lui per motivi di denaro. Poi, l’inchiesta si orienta verso una banda di calabresi e le ricerche del nascondiglio sui monti della Sila.
Passano quasi cento giorni ed arriva alla redazione di un quotidiano romano, una lettera sporca di sangue. C’è dentro un orecchio umano ed una scritta che lo identifica: appartiene al rapito. Non basta. Poco dopo ecco le foto che ritraggono Paul III con un orecchio solo. La lettera con il tragico reperto conteneva un ultimatum: il riscatto subito oppure sarà amputato l’altro orecchio. Quel tirchio del nonno si decide a pagare. Tanto più che i malviventi gli avevano fatto un forte sconto 2 milioni di sterline, anziché gli 11 richiesti al principio. Il 15 dicembre 1973, l’ostaggio viene rilasciato in una stazione di servizio vicino a Potenza. E’ morto il 7 febbraio 2011, in Inghilterra, a 54 anni, dopo una lunga malattia causata, nel 1981, da un ictus per overdose che lo aveva ridotto sopra una sedia a rotelle. Curiosità: a Bovalino, un piccolo comune in provincia di Reggio Calabria, patria dei rapitori, un quartiere viene allusivamente e con malizia chiamato Paul Getty.
In tale furia di rapimenti, l’Umbria non rimase indenne. Il 3 ottobre 1990, a Perugia, quattro malviventi, armati e mascherati, nella migliore tradizione dell’Anonima sequestri, prendono d’assalto una villa alla periferia della città e portano via un bambino. Si chiama Augusto De Megni ed ha solo 10 anni. Anche lui ha un nonno facoltoso, che porta lo stesso nome, Augusto, avvocato e finanziere di spicco, proprietario del Banco De Magni, diventato Banco di Perugia. Verso le 21,30, all’ora dell’aggressione, con il piccolo, in casa, c’è solo il padre Dino: lo legano e fuggono con l’ostaggio. A gestire la delicata e pericolosa situazione è nonno Augusto. Con qualche “aiutino” – si disse – della massoneria della quale era Gran Maestro. Le voci attorno parlarono di un riscatto anomalo, pagato non all’emissario dei carcerieri, ma all’informatore di notizie circa il luogo dov’ era il prigioniero: nei pressi di Volterra in Toscana. Un po’ vaga l’indicazione, però attendibile.
In quel territorio si concentrano le ricerche. Racconterà poi il piccolo Augusto che i banditi volevano mutilarlo come altri avevano fatto con Paul Getty; uno di loro si oppose tenacemente. E lui, al processo, lo indicò come il carceriere buono. Il 24 gennaio 1991, i NOCS individuano il nascondiglio. Dentro ci sono Augusto e uno dei suoi custodi. Fanno irruzione e liberano l’ostaggio dopo 113 giorni dall’inizio del sequestro. Pesanti condanne verranno comminate nel giudizio a carico degli autori. Per Augusto, dalla penosa avventura, tanta sofferenza e tanta notorietà, seppure indesiderata. Lo ritroveremo, più avanti, vincitore del Grande Fratello 6. Era stato recluso nella grotta di Volterra per poco più di cento giorni e ne passò solo qualcuno in meno (99) nella Casa di Cinecittà. Quando si dice il destino!
Ma, il rapimento De Megni non fu il primo nella nostra regione. E’ il 1979, nella frazione di Trecco di Valfabbrica abita la famiglia Freddi. Il padre Roberto è un ingegnere romano, ex impresario edile. Si è trasferito da quelle parti per fare il contadino nella sua azienda agraria. Con lui e la moglie belga Marianne, vive il figlio Guido. Ha 13 anni e il 19 agosto di quell’anno, viene sequestrato – come s’usa dire – dai soliti banditi armati e mascherati che avvertono minacciosi: per riavere l’ostaggio ci vorranno molti soldi. Pochi i punti di orientamento per le indagini. Qualcuno avanza l’ipotesi alquanto fantasiosa: sono state le Brigate rosse. E’ una bufala. Un messaggio appare su un giornale. Dice: “Fatemi sapere notizie di mio figlio. L’azienda l’ho già venduta.” Sono passati 28 giorni, quando Guido viene liberato nell’area di parcheggio dell’Autostrada del Sole nei pressi di Magliano sabina. Sembra sia stato pagato un cospicuo riscatto. “Come responsabile della Nazione Umbria – scrisse, alcuni anni fa, Bruno Brunori (lo aggiungo, in chiusura, soltanto per ricordare il caro amico Bruno scomparso) – ho vissuto la vicenda momento per momento, rimanendo a contatto quasi quotidiano con il padre del ragazzo.”