SPOLETO – Riavvolgere il nastro per credere di poter tornare alla normalità. In questa chiave andava letto sabato sera quel testo scritto che, proiettato sullo sfondo del palcoscenico del Caio Melisso si autocancellava come si fa col computer, da destra verso sinistra. Il dialogo di una madre con la figlia, entrambe travolte dal terremoto che ha sconvolto anche la Valnerina è stato il soggetto di un’opera lirica – chiamiamola ancora così – che venerdì e sabato sera ha praticamente inaugurato la settentaduesima stagione del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto.
Talmente Sperimentale da credere con coerenza che la musica sia una, e quindi che quella contemporanea, anzi moderna, sia fruibile come il grande melodramma di tradizione. Certo, bisogna scegliere il Caio Melisso per raccogliere il pubblico in un verosimile “pienone”, ma se tra gli ascoltatori c’è anche un Salvatore Sciarrino vuol dire che lo scopo è raggiunto.
Filippo Perocco, premio Abbiati della critica musicale italiana 2017, autore rappresentato praticamente in tutto il mondo civile, ha risposto a una specifica commissione del Lirico spoletino e l’ha onorata su un libretto che forse gli stava un po’ stretto, data la serrata referenza alle vicende del terremoto che ha sconvolto tanta parte della nostra regione. La trama narrativa è stata stesa con estrema intelligenza da Riccardo Fazi, esperienze americane di rilievo e fondazione, con Claudia Sorace, del gruppo teatrale Muta Imago. Se la stessa Sorace si è fatta carico della regia, il suo lavoro è stato notevolmente arricchito dalla realizzazione scenica e dai video di Maria Elena Fusacchia.
La stesura dello spettacolo, senza mai assumere toni cruenti, è stata talmente verosimile da convincere, con la sua caria emotiva, anche gli stessi abitanti della Valnerina che, come ama ricordare Michelangelo Zurletti, direttore dello Sperimentale, si sono sentiti partecipi della rievocazione, senza veder lesi i loro diritti e la loro sensibilità. Unica nota stonata nel palcoscenico i due bengalini in gabbia: ci sono sembrati reali e se questo è vero si è trattato di inutile crudeltà. Lo è tenere uccellini in gabbia, ma lo diventa ancor più farne oggetto di spettacolo.
Aspettiamo reazioni degli animalisti che si preoccupano enormemente di orsi e lupi.
Quando si è aperto il sipario siamo stati travolti dalla bellezza di un bosco tipico del paesaggio antropico delle nostre montagne: faggi foltissimi, una strada bianca, pecore a non finire, anche in primo piano, col loro cane maremmano. Come si sa pericolosissimi nella realtà. Animalisti, fatevi sentire!
Poi è apparso un tipico villaggio di altura, di quelli in muratura a secco, antichi come le genti picene o sabine che popolavano i nostri altipiani. Degli umbri si sa talmente poco che non si sa poi perché ci chiamiamo così. Intanto la musica di Perrocco ha cominciato a scorrere nella neutralità di un dialogo a due voci tra una madre e una figlia in una normale giornata della vita. La figlia che fa w.app, la madre che si inebetisce davanti al televisore. Dalla buca dell’orchestra un’altra voce femminile si fa sentire nel brulichio degli strumenti. Ci dicono che sia la Natura, ma non riusciamo a vederla. Tutto è comunque di una bellezza incredibile: suoni, canto, immagini.
Nel frattempo sul telo che fa da schermo per il filmato, si leggono anche i testi che vengono cantati. Il che è di grandissimo conforto per tutti.
Quando il velo cade si capisce che il terremoto ha scatenato la sua forza vindice. Poco dopo le pile dei soccorritori si fanno strada dentro un denso fumo, quello delle macerie. La musica di Perrocco procede imperterrita, preziosa, mai commossa. Ogni tanto gli strumentisti fanno da coro, mormorano qualcosa e la suggestione sonora aumenta. Quel che rende avvincente la trama è che il presente si fa passato e la compresenza madre-figlia si riavvolge su se stessa in una continua frantumazione temporale.
Nel frattempo la musica ha continuato a inanellarsi in preziose volute, irrorate da un bellissimo bicinium delle due protagoniste che sono Daniela Nineva e Livia Rado. Dall’orchestra risponde Emanuela Sgarlata. Il piccolo complesso strumentale, diretto egregiamente, come prevedibile, da Marco Angius, accetta anche l’inserimento di un autentico strambotto rinascimentale e di quel che suona come una canzone popolare. Praticamente, dopo la caduta del velo, siamo stati in una continua semioscurità, ma abbiamo visto il tetto a capriate della tipica casa umbra alzarsi e aprirsi. Probabilmente molti di noi hanno pensato a san Salvatore in Campi, polverizzato.
Nel momento in cui cominciamo ad applaudire, siamo tutti convinti di aver apprezzato una narrazione intelligentemente misurata della tragedia della Valnerina. Una scena più che un’opera, una cantata laica. Ma di questa forma di coscienza e di testimonianza se ne aveva bisogno. Si chiama “Lontano da qui”.
Stefano Ragni