L’ultima cicala cessa di frinire a metà del primo pezzo: e chissà se, nel suo piccolo cervello si è sognata di paragonare il frastuono prodotto dai suoi timballi addominali con la dolcissima musica del Libertango di Piazzolla. Associazioni di musica e natura che si potevano fare ieri sera nella stupenda agorà dell’arena Cucinelli, il teatro all’aperto che accoglie la più parte dei concerti che animano la tre giorni spettacolare della Fondazione.
Quando scende definitivamente l’ombra della sera Piazzolla può fare i conti col lato oscuro della sua musica e cercare di liberarsi dell’incubo del tango, il fantasma che lo ha seguito per tutta la sua vita produttiva. Il teorema è stato proposto nella serata inaugurale del festival che Federica e Brunello Cucinelli hanno voluto dedicare all’Argentina. Il direttore artistico Ciofini si è preso la soddisfazione di offrire al pubblico che occupava per intero lo spazio teatrale la possibilità di valutare l’incidenza della danza portegna in quella che è la produzione sinfonica di Piazzolla. Con il risultato finale che Piazzolla è realmente un “tutto-tango”, anche quando si allinea coi grandi modelli della sua ispirazione colta, che sono, impensabilmente, Bartok e John Cage.
All’inizio del concerto Silvia Paparelli, la voce narrante del Festival, ha enucleato col consueto garbo e competenza, le voci della formazione di Piazzolla, dall’esperienza di New York all’avvicinamento, a Parigi, alla grande signora Boulanger. Ma alla fine è quel trafiggente spirito del tango, definito da un emigrato italiano di seconda generazione, Enrique Santos Discepolo, “un pensiero triste che si balla”. Una condanna piacevole, comunque, quella di essere lo spirito della grande danza, anche a dispetto delle critiche e delle opposizioni nella nativa argentina a quella evoluzione che Piazzolla sviluppò col suo tango-sinfonico, ossia qualcosa che non si balla, ma si pensa e si ascolta.
Dopo il duello cicala-Libertango ecco dipanarsi la tela del progetto realizzato da tre artisti argentini appositamente convocati a Solomeo, il direttore d’orchestra Luis Gorelik, il chitarrista Ismael Grossmann e il bandoneista Nicolas Enrich.
E’ proprio a queste due voci, la chitarra e il bandoneon, lo strumento della nostalgia dell’emigrazione austro-tedesca che Piazzolla ha affidato il suo primo Concerto accompagnato dagli archi. E’ in questa musica che Piazzolla definisce i termini della sua classicità, una struttura solidamente edificata, una condotta orchestrale molto serrata e uno slancio creativo di chitarra e bandoneon che si incrociano, misurandosi e avvolgendosi sui ritmi tortuosi di una musica che non sarà tango, ma che gli somiglia tanto. Qualcosa che il contemporaneo Ginastera tenterà di effettuare ricorrendo al ricchissimo patrimonio di danze argentine, tutte comunque piccate da questi ritmi di andamento sghembo che emulsionano la tradizione gitano-iberica con le candenze afrocaribiche.
Occidente e Patagonia in simbiosi nel secondo pezzo, “Coral y Canyengue”, con qualcosa che viene dalla tradizione delle missioni gesuitiche e una danza di chiare movenze africane. Impressioni confermate dalla successiva “Danza salvaje”, con la fatale ricaduta nel tango de “La muerte del angel”. Bisogna arrivare al conclusivo Concerto per bandoneon, archi e percussioni, per ritrovare il brivido del modello bartokiano, riverberato da atmosfere rabbrividenti ed esaltate da questo strumento “sguaiato” che canta una lancinante canzone di memoria e di disperazione.
Nicolas Enrich esecutore di altissimo livello e orchestra ARTeM di Rieti all’altezza del suo compito. Ottima la amplificazione e gradevolissimo lo schermo che riproduceva immagini della natura argentina, dalle imponenti cascate dell’Iguacù ai ghiacci della Terra del fuoco.
Stefano Ragni