Narrava il neuropsichiatra Oliver Sachs di una sua straordinaria esperienza nella fase “ipnopompica”, vale a dire appena sveglio, che aveva per soggetto lo splendido Concerto in mi minore di Mendelssohn, una delle più belle cose che sia stata pensata per il violino solista. Una caduta sulle montagne della Norvegia, il sofferto arrivo in un piccolo ospedale, le cure sommarie, poi il trasferimento negli Stati Uniti e il ricovero in clinica. Si trattava di una lacerazione del muscolo quadricipite. La gamba era immobile e inerte. Per le settimane della degenza Sachs si era ascoltato una sola musica, il Concerto di Mendelssohn, appunto. Ma quando si trattò di poggiare la gamba a terra non ci fu verso di camminare. Allora il geniale Oliver riprodusse nella sua testa una scansione ritmica del Concerto, ricreando quella che i neurologi chiamano la “melodia cinetica” del camminare. E cammino fu.
Chi volesse saperne di più vada a sfogliarsi il libro “Musicofilia” con cui lo scienziato americano ha consegnato alla conoscenza una delle più incredibili esperienze vissute dalla mente umana immersa nella musica. Ma, neuro genetica a parte, per i tanti che ieri pomeriggio erano al teatro di Federica e Brunello Cucinelli il Concerto di Mendelssohn è stato causa di incredibile stupore e di immenso appagamento. L’uno e l’altro provocati da un violinista, Stefan Milenkovich, che non si esita a collocare tra i più bravi, i più simpatici, i più coinvolgenti mai apparsi da queste parti.
Per la stagione che annoda le attività concertistiche degli Amici della Musica con quelle della Fondazione Cucinelli, il piccolo tempietto della ragione che è il teatro di Solomeo è risultato troppo piccolo per accogliere tutto il pubblico che voleva seguire uno dei quei concerti che si acquistano a scatola chiusa, dato che, con un ambo secco, venivano proposti due capolavori della letteratura classica, il citato Concerto di Mendelssoh e la Quarta Sinfonia di Beethoven.
Chi ha ascoltato si ritenga fortunato, perché difficilmente si potrà godere di una eccezionale accoppiata: una orchestra da camera di Perugia che ha suonato semplicemente sontuosamente e un virtuoso che ha posto al servizio della bellezza delle doti mutuate da una infanzia produttiva ed esemplare: a sedici anni già mille concerti effettuati. E’ tutto partito dal trasparente accompagnamento degli archi, su cui il solista di adagia con questa struggente melodie in mi minore, tonalità violacea, appassita. E subito dopo quella impennata romanticamente sinfonica, un rincorrersi del violino con i legni e i fiati, sempre più incisivi, sempre più trafiggenti. E poi le cadenza, l’Adagio che è uno dei più poetici Lieder della letteratura tedesca, e il finale, misurato, senza sbrodolarsi a rotta di collo. E’ così che un vero virtuoso misura le sue qualità. Quando tutto sembra semplice, allora è vera grandezza. Ora bisogna spiegare che Stefan l’orchestra se la dirigeva suonando, ma senza gesti inconsulti. Solo qualche accenno con l’aro verso la compagine e, quando occorreva, un’alzata di ciglio voltandosi verso i compagni. Raramente si è visto qualcosa di più armonioso e la risposta dell’orchestra è stata del tutto idonea: tutti intonati, fiati in rilievo e un guardarsi l’uno con l’altro per le entrate. Insomma un Giuoco delle Perle di vetro fattosi orchestra.
Alla fine il primo bis. L’Allemanda della Seconda Partita di Bach, la purezza del suono in assoluto. Con un teatro che rifrange con la sua perfetta acustica ogni respiro delle corde ecco Milenkovich darci la misura della sua eccellenza. Lo capisci quando tra dito, corda e legno del manico senti soffiare un refolo d’aria che ti trasmette la commozione del suono: è quella che Sachs definirebbe la “propagazione del vuoto”, una minuscola compressione del silenzio che si riempie di vibrazione. E’ un plesso di sensazioni che ti arriva e ti costringe a trattenete il respiro. Ed è lo stato di grazia, rarissimo che ti fa rivivere quelle sensazioni che provavano i santi in estasi. Troppo brevi, perché poi bisogna tornare sulla terra. E tanto che c’è Milenkovich ci regala anche un altro bis, il vorticoso Ysaie della Seconda sonata, Ossessione. Solo un movimento e ci basta.
Seconda parte del miracolo. Quarta di Beethoven con Stefan che si siede al primo leggio e suona. Suona e fa suonare perché, quando s’innesca il vorticoso fluire ritmico di una delle sinfonie più elettrizzanti scritte dal grande di Bonn, tutti entrano nel gorgo della musica, ogni famiglia strumentale gestisce le sue entrate, tutti sono leggeri e sorridenti e la partitura semplicemente “va”. Ci hanno spiegato che tutto questo è il risultato di appena due giorni di prova, e questo va a favore della capacità dell’Orchestra di Perugia di aver accettato un impegno di non poco conto di averlo svolto nel migliore dei modi. Finalmente, dopo tanti anni, ci perugini si accorgano di avere una vera orchestra. E che si avveri il teorema del presidente della Fondazione Perugia Musica Classica, Anna Calabro: possiamo farcela.
Stefano Ragni