Una porzione dei Filarmonici di Berlino a san Pietro. Un dono della sorte, un regalo della fortuna e una operazione di sano ed etico mecenatismo se si considera i costi che avrà affrontato la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia per assicurarsi la presenza dei dodici archi della più storica e prestigiosa formazione sinfonica del mondo. In altri termini uno dei quei grandi colpi da regina di picche che Laura Musella sa concretizzare col suo festival Omaggio all’Umbria. Un processo di osmosi col territorio che, dopo le luce che Riccardo Muti ha saputo accendere nella piazza di san Benedetto a Norcia, a ridosso del trionfo personale che il primo di settembre Uto Ughi ha saputo meritarsi al san Domenico di Gubbio, ha focalizzato domenica sera un momento di contatto praticamente irripetibile con quella che possiamo definire una scheggia della grande storia del sinfonismo europeo.
Dall’età di re Federico secondo di Prussia, a Mendelssohn, ai fasti di Wilhelm Furtwaengler, allo splendore dell’epopea di Karajan, alle alchimie di Claudio Abbado, la Filarmonica di Berlino ha costretto tutte le formazioni sinfoniche mondiali a misurare i loro passi con il suo incedere, solenne e sontuoso, nel repertorio sinfonico della grande tradizione. L’orchestra, o quel che ne restava, suonò il suo ultimo concerto anche sotto le bombe dei sovietici nelle ultime fasi dell’Olocausto: sembra fosse il Concerto per violino di Beethoven. Oggi i Filarmonici sono un’azienda regolata dalle leggi del marcato e dalle regole della competenza: li dirige solo chi è più bravo. Sono talmente in esuberanza in talento e soddisfazioni che si permettono di staccarne alcuni pezzetti e mandarli in giro per il mondo ad accrescere plausi e fortune.
Con queste premesse è logico pensare che ogni spettatore presente in san Pietro, sempre e ancor più la Betlemme della musica perugina, fosse consapevole di essere semplicemente un privilegiato ad accostarsi a questi archi frementi, sobri nell’abito nero con cravatta rosso amaranto, agitati come Argonauti al remo, scossi dal vortice della musica che sapevano creare. Impossibile produrre un suono così possente in relazione ai pochi leggi in cui si erano distribuiti. Pure i Filarmonici berlinesi fin dall’inizio del concerto hanno saputo alternare ondate acustiche incandescenti e refoli di sconcertante tenerezza. E soprattutto, sin dal Mozart di apertura, il Divertimento K 136 è apparsa evidente anche la cifra di eleganza con cui i berlinesi hanno voluto accarezzare una partitura che fa delle leggerezza la sua cifra connotativa. Avete mai sentito un complesso che sappia diminuire le due quartine di semicrome portandole verso il pianissimo? Ebbene, loro lo hanno fatto, quasi estinguendo la nota finale della sequenza, creando un vuoto d’aria al termine del volteggio. Poi, nell’Andante, la trasparenza, la tessitura del respiro Rococò, un marmo del Bernini ricoperto di un velo di carne viva. Per concludere col taglio del marmo di un Prestissimo lucente come un statua di Canova.
Lo Chopin del Concerto op. 11 cadeva in seconda posizione, togliendo ai Filarmonici la possibilità di continuare a pensare in grande. La brava pianista Sabrina Lanzi si è comportata molto bene, raccogliendo anche un bel successo di pubblico. La brillante solista ha saputo ricompensare l’entusiasmo degli ascoltatori con un bis di straordinaria fattura. Si trattava di una sorta di assemblaggio di improvvisazioni del suo grande maestro Friedrich Gulda, uno melodizzare ondivago che sembra Chopin senza esserlo. Brano di una certa lunghezza, rapinoso.
Niente intervallo per passare al Cajkovskij della Serenata op. 48. Senza un velo di stanchezza, se possibile sempre più tonici e luminosi in questo dedalo di tenerezze slave, fino all’ovazione dei presenti. Compensati dal mormorio dell’Aria di Bach che ormai definiamo tutti “sulla quarta corda”. Tutti gli angeli della basilica facevano capolino dagli affreschi per intrecciare una danza mistica con gli archi berlinesi. Una visione biblica, i gradini della Scala di Giacobbe. Quando mai risentiremo qualcosa del genere? Bisogna riaprire gli occhi e tornare verso casa.
Stefano Ragni