di Stefano Ragni – Beatrice Rana, ieri sera ci ha fatto sentire il ferro del pianoforte. Con la estroversa e granitica pianista, ventisei anni di fuoco, gli Amici della Musica sono rientrati da signori nel teatro civico ripristinato. In effetti si respira aria di fresco e la platea senza più la croce latina sembra dare più spazio. Anche se uno degli utenti dei posti centrali, una volta colto da impellente bisogno, per alzarsi dovrà fendere più di una decina di spettatori. Per non parlare poi di signore voluminose con borsa a seguito che travolgeranno tutti fino alla conquista della poltrona assegnata. Comunque nessuno ha protestato o lamentato disagi, quindi vuol dire che la comunità musicale accetta le non lievi modifiche con molto garbo.
Quel che è rimasta positivamente rilevabile è la buona acustica che si gode dalla platea, e questo è quanto interessa l’ascoltatore medio. Si aprono le scommesse sul confronto con l’auditorium di san Francesco, se mai riusciremo a metterci piede.
Venendo alla sbalorditiva, giovane ospite, gli Amici della Musica hanno ribadito plauso e ammirazione per una solista che, alla sua terza presenza, conferma di essersi impennata in una carriera di grande prestigio che la porta a onorare il nome dell’Italia in ogni angolo della musica internazionale. Sempre con lusinghieri riscontri.
Narra la leggenda che questa estate la bruna Beatrice si sia fatta costruire un pianoforte in legno di olivo per battersi a favore degli oliveti pugliesi devastati: con un concerto nella sua masseria ha mobilitato l’ opinione pubblica europea sul martirio subito dai maestosi alberi rinsecchiti dal noto parassita. Un poderoso segno di amore per la propria terra e di fattiva alleanza tra musica e ambiente che parla più di qualunque manifesto.
Di questa piccola, marmorea ragazza che sembra ancora una adolescente, anche in virtù di questo gesto di interesse per l’economia culturale e umana dalla Puglia, ci è piaciuto un po’ tutto. La sua concentrazione quando si siede allo strumento con espressione bellicosa, il suo piglio deciso quando agguanta la tastiera, la tempesta di suono che solleva, senza pulviscolo e senza tintinnii, mostrando subito di voler suonare anche i metalli costitutivi del pianoforte. Certo, a ventisei anni si fa così, soprattutto quando si affronta un repertorio assolutamente virtuosistico. Forse un po’ troppo virtuosistico, perché poi, alla fine dei prodigi di valore, il risultato complessivo è una roboante assenza di una vera temperatura emotiva.
Ma l’impatto della serata è di quelle che non si dimenticano.
C’è stata, all’inizio della serata, la gragnuola dei colpi inferti all’integrale degli Studi op. 25 di Chopin. Oggi, dopo tante stesure analoghe, non poche delle quali anche qui agli Amici della Musica, sarebbe ora di risparmiarci queste autentiche esposizioni di tesi di laurea, e magari andare a ripescare tra gli Studi solo quei numeri che si collegano tra loro per competenze linguistiche. Altrimenti è una vetrina di esibizioni, uno sfoggio di manualità su cui, poi, ci sarà sempre qualcuno che ha qualcosa da ridire. Per noi è andato tutto bene, anzi ci ha confortato qualche speciale atteggiamento della guerresca Beatrice, magari quel frizzare sul terribile esercizio delle terze, e lo scivolamento sinuoso, da serpente del mare, sul numero delle ottave. Pregevole lo scatto liberatorio, veramente infiammato, sul frammento finale, un vero crollo del muro di Berlino, tanto per resta pertinenti a ciò che abbiamo ricordato ieri.
Nella seconda parte del concerto ecco la mirabile proposta di riascoltare uno dei quaderni di Iberia di Albeniz. Il terzo libro, del 1906, Albaicin, Polo e Lavapies, trittico con cui il geniale musicista spagnolo voleva farsi assolvere per essere stato un pianista prodigio e cercava il consenso dei grandi musicisti parigini, sporcando di armonie coriacee e inconcludenti i ritmi nativi della tradizione flamenca. Forse, ma questa è facile ironia, anche perché lui era catalano.
Onore a chi vuole suonare questa musica piuttosto bruttina e un voto in più a Beatrice per aver risolto le asperità con il necessario graffio esecutivo. Soprattutto quando si ha l’accortezza di smorzare i toni nei momenti in cui il compositore indicava piano, pianissimo e “leggiero” (sic).
Autentico volo da un grattacielo quando la deliziosa Rana ha iniziato il trittico di Petruscka di Stravinskij. Con quella velocità ci siamo tutti sentiti mancare il pavimento da sotto i piedi. E’ sembrato proprio che Beatrice, con questa musica, avesse un conto aperto da risolvere. Noi tutti, ovviamente, abbiamo tifato per lei e l’abbiamo accompagnata nel pugilato ingaggiato, trionfando con lei nella vittoria conseguita.
Il fatto è che questa musica viene dall’orchestra e, come l’ha suonata lei, all’orchestra è tornata, secondo una ciclicità che coinvolse, fin dall’inizio, l’ispiratore dell’opera, il topico Artur Rubinstein, un musicista lontano anni luce da questa percussività sadicamente tagliente. Tirando il fiato a ogni spazzolata di tasti, tutti hanno condiviso i graffi e le lacerazioni che Beatrice ha inferto allo spartito, tirandone fuori quel grottesco da joker malvagio che inonda il bianco dei tasti del sangue che gli schizza dalla bocca.
Boati di consensi per la deliziosa ospite, apoteosi di applausi e compiacimento degli Amici della Musica per avere accompagnato quella che è forse la migliore pianista italiana in un altro momento della sua maturazione. E come non rimanere ammirati di fronte a una ragazza che, dopo i successi al van Cliburn e a Montreal, fellowship del Buitoni-Borletti Trust, premio Edison della discografia, dichiara ancora, e lo scrive nel suo curriculum, di studiare a Roma con Benedetto Lupo, il suo maestro delle origini?
Stefano Ragni
(Foto di Adriano Scognamillo)