di Francesco Castellini – Dunque la procura di Roma ha riaperto l’indagine con il preciso intento di fare definitiva luce sul delitto Pecorelli. Come già annunciato su queste colonne in un precedente articolo, si tenterà così finalmente di fare chiarezza sull’assassinio del giornalista avvenuto 40 anni fa a Roma, la cui vicenda giudiziaria ha lambito personaggi politici, malavitosi, apparati deviati dei servizi segreti e la mafia, ma senza mai portare a nulla, facendo rimanere mandanti ed esecutori ancora impuniti.
L’omicidio di Mino Pecorelli, direttore di Op, Osservatore Politico, è uno dei casi irrisolti più controversi della storia giudiziaria italiana. Il giornalista venne ucciso con quattro colpi di pistola, tre alla schiena e uno in bocca, appena dopo essere salito sulla sua auto parcheggiata in via Orazio, nel quartiere Prati. Fu barbaramente assassinato appena dopo aver lasciato la redazione di Op per tornare a casa. Lo ammazzarono sparandogli con una pistola calibro 7.65 munita di silenziatore.
Nella richiesta di un nuovo processo era stato chiesto ai magistrati guidati da Giuseppe Pignatone di riaprire le indagini sulla base di un vecchio verbale di Vincenzo Vinciguerra, un ex estremista di destra. In quelle dichiarazioni raccolte dal giudice Guido Salvini nel 1992, si sostiene di sapere chi avrebbe avuto in custodia la pistola usata per uccidere Pecorelli. Verbale poi trasmesso alla procura di Roma i cui accertamenti non hanno portato a sviluppi investigativi.
«Cerco la verità e non mi arrenderò finché non l’avrò scoperta»: Rosita Pecorelli commenta così la decisione di chiedere la riapertura dell’indagine sull’omicidio del fratello Mino. E’ quanto ha dichiarato all’Ansa. «Voglio solo sapere chi ha ucciso mio fratello» ribadisce.
L’avvocato Valter Biscotti (nella foto a lato) si è detto “onorato” di rappresentare Rosita Pecorelli. «A mio giudizio – dice il legale – ci sono elementi tali da consentire ulteriori accertamenti. È un atto dovuto a Pecorelli, per continuare a cercare la verità».
Per l’omicidio furono processati e assolti Andreotti, Vitalone, Badalamenti, Calò, La Barbera.
La prima inchiesta venne archiviata nel 1991 dal pm di Roma Domenico Sica. Le indagini portano al coinvolgimento di personaggi come Massimo Carminati, Licio Gelli, Antonio Viezzer, Cristiano e Valerio Fioravanti, ma tutti vengono prosciolti per non avere commesso il fatto il 15 novembre 1991.
Un anno e mezzo dopo, il 6 aprile del 1993, il pentito di Cosa nostra Tommaso Buscetta accusa Giulio Andreotti di contiguita alla mafia davanti ai pm della procura di Palermo. Il senatore a vita viene iscritto nel registro degli indagati il 14 aprile.
In base alle dichiarazioni di Buscetta il pm capitolino Giovanni Salvi indaga anche Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò. Nell’agosto del 1993 i pentiti della Banda della Magliana coinvolgono il magistrato romano Claudio Vitalone. Il 17 dicembre 1993 il fascicolo viene inviato alla procura di Perugia, competente ad indagare sui magistrati romani. Nel 1995 parlano altri due pentiti della Magliana, Fabiola Moretti e Antonio Mancini: finisce indagato il boss Michelangelo La Barbera e i pm umbri chiedono la riapertura dell’inchiesta su Carminati. Il Cecato otterrà il proscioglimento col rito immediato poco dopo. A novembre, invece, vengono rinviati a giudizio gli altri imputati. Quattro anni, 128 udienze e 231 testimoni dopo, la procura chiede la condanna all’ergastolo di Andreotti, Vitalone, Badalamenti, Calò, La Barbera.
Dopo 102 ore di camera di consiglio, però, la corte d’Assise assolve tutti per “non aver commesso il fatto”.
Nel 2002 la procura generale in Corte d’Appello chiede di condannare gli imputati a 24 anni di reclusione. Il 17 novembre i giudici riformano parzialmente la sentenza di primo grado: Andreotti e Badalamenti sono condannati a 24 anni di reclusione come mandanti del delitto. Confermate le assoluzioni per gli altri imputati. Sentenza annullata il 30 ottobre del 2003 dalle Sezioni unite della Cassazione che assolvono definitivamente Andreotti e Badalamenti e confermano il proscioglimento di tutti gli altri imputati.
Pecorelli rimane un morto senza assassini. Adesso, alla vigilia dell’anniversario numero 40 dell’omicidio, ecco la richiesta di riaprire le indagini.
Adesso, sulla base dell’istanza presentata dall’avvocato Biscotti, su mandato della sorella di Mino, Rosina Pecorelli, che ha allegato proprio le dichiarazioni di Vinciguerra e l’inchiesta giornalista di Raffaella Fanelli che ha ipotizzato un collegamento tra le armi sequestrate a Monza e l’omicidio di via Orazio, la procura ha dunque deciso di riaprire il caso.
La delega è stata affidata alla Digos di Roma.
Ma solo comparando le armi sequestrate allora a Magnetta e bossoli e proiettili del processo per l’omicidio Pecorelli si potrà capire se la pista Magnetta allora accantonata poteva portare a individuare l’arma del delitto e riscrivere un pezzo importante di storia giudiziaria “dimenticata”. I verbali che hanno dato l’input alla riapertura delle indagini compaiono anche nella ristampa de “Il Divo e il giornalista”, scritto dal giornalista Alvaro Fiorucci, insieme al cancelliere Raffaele Guadagno e nel libro dell’avvocato Biscotti.