Che un po’ di attenzione ci sia, come ha testimoniato il varco di assenti che ha caratterizzato sabato scorso il concerto degli Amici della Musica. Un po’ il giorno, ancora parzialmente lavorativo, un po’ la paura degli assembramenti hanno lasciato un segno sulle presenze. Cosa che non ha impedito a molti di testimoniare, comunque, l’attaccamento all’istituzione e alle sue proposte.
Questa di Benedetto Lupo era letteralmente da sorbirsela come un filtro magico, una pozione preziosa da delibare quale infuso alchemico contro l’incombente virus. Lo voleva prima di tutto la scelta del programma, un mosaico di succhi sonori estratti da piante preziose quali erano le raccolte pianistiche di Janacek, di Nino Rota e di Scriabin. Qui la particolare qualità del pianismo dell’interprete pugliese, riconosciuto come un distillatore di acustiche preziose, modulate da un gusto particolare per gli impasti armonici ha ampiamente confermato quanto di Debussy si era ascoltato da lui nel memorabile concerto al teatro Morlacchi.
Ora si è trattato di allargare il tappeto delle sensazioni sonore, passando dalla fissità sognante del caleidoscopio debussyano agli innesti di una Europa ricca di suggestioni. A cominciare dalla Sonata 1905 di Janacek, che in realtà è una sorta di tappeto funebre steso su una vittima dell’irredentismo ceco di inizio secolo. Musica di fortissimo impegno civile che non esce dai confini di una deplorazione commossa, senza assumere i toni della violenza. Ci sono le articolazioni contorte del linguaggio tipiche dell’autore moravo, sinuose frasi che si avvolgono su se stesse come piccoli fantasmi guizzanti. Raccoglierli in un gesto unitario e svolgerli come un racconto coerente è stato un impegno assolto da Lupo con encomiabile attenzione.
Quel che ha stupito e un po’ indispettito il pubblico è stato poi il fatto che Lupo, appena finita la Sonata, non abbia fatto il minimo gesto per accompagnare la sua chiusura. Gli ascoltatori non possono tutti essere esperti del repertorio e, ovviamente, non hanno colto l’attimo per l’applauso. Anche perché l’ospite ha cominciato a martellare i Preludi di Nino Rota. Ora sarà che a Bari, la città di Lupo, la memoria del “magico amico” di Fellini è cosa santa, come cercano di sostenere tutti i catecumeni pugliesi, ma volere fare passare l’autore di indimenticabili colonne sonore come un maestro del Novecento accademico è un faccenda un po’ ardua. Anni fa anche Riccardo Muti, nel suo passaggio al Morlacchi, ci propinò un Concerto per pianoforte e orchestra del maestro milanese, per devozione di discepolo e per animosità di seguace. Lupo ha confermato la tendenza, prodigandosi nella piccola Babele di paginette didascalicamente ben tracciate, tutte segnate da un indubbio magistero compositivo. Il fatto è che non si tratta nè di Stravinskj, né di Casella, tanto meno di Copland, e gli estri e gli umori di Rota, anche se lasciano il segno nell’orecchio dell’ascoltatore, rimangono a stazionare su un binario morto dell’emozione. Apprezzabile comunque la serietà con cui Lupo li ha suonati, anche con qualche tonfo in eccesso per esaltare le sonorità più complesse.
Il conforto è arrivato nella seconda parte della serata dove Lupo ha affrontato i ventiquattro Preludi dell’op, 11 di Scriabin. Musica che sa di vecchi divani tarlati della san Pietroburgo imperiale, ma che ha capacità di sfoderare la sognante dolcezza di un romanzo di Mandel’štam. Che nel suo “Rumore del tempo” rievocava il suono del pianoforte del Circolo dei Nobili, le cui note erano come “piccole imbarcazioni cariche di una passa e grappoli neri”.
Si sono gustati molti sapori nella versione di Lupo, con incredibili dolcezze, per pagine che forse non sono così significative per un impegno tanto costoso. Pensiamo solo alla complessità della memorizzazione di pagine che svolazzano da una parte all’altra della tonalità, con diverticoli armonici di grande complessità. Quel che va comunque riconosciuto al serissimo pianista pugliese, oltre la riconosciuta bravura, è di aver voluto proporre un programma veramente originale. Anche la sobria eleganza del bis, un minuscolo Scriabin. Un petalo.
Stefano Ragni
(Foto di Adriano Scognamillo)