Una pianista in assoluta rarefazione, concentrata in se stessa, autoreferente, alle prese con un trittico schubertiano per uno dei più impegnativi concerti della stagione degli Amici della Musica. In un teatro Morlacchi quasi pieno ci sono le persone giuste per apprezzare un percorso difficile, sia per chi suona che per chi ascolta.
Lei, Mitsuko Uchida, una ventina di presenze negli ultimi anni, la pianista nipponica che ha sottolineato il saluto di noi tutti alle spoglie di Franco Buitoni nella basilica di san Pietro. Ma, ancor di più, una delle fondatrici e delle garanti della qualità del Borletti-Buitoni Trust; non solo per questo, ma certamente anche per questo la regina d’Inghilterra l’ha nominata Dame,
Ogni volta che torna in città ci si chiede a quali prove sottoporrà la nostra sensibilità di ascolto. Varcati i settanta della saggezza, Mitsuko suona in maniera sempre più impercettibile: snerva molti, costringe tutti a una ascolto selettivo, dove le percezioni vibratili si fanno sempre più asciutte. Poi bisogna sopportare quelle strapazzate a cui sottopone la tastiera: il mezzo-forte e il cantabile per lei non esistono: è tutto un chiaro –scuro nitido e laccato. Ma se si ha la pazienza di entrare nel cerchio incantatorio, allora tutto si fa chiaro: Mitsuko non racconta, non descrive, ma traccia un teorema di verità: nel suo rapporto con la tastiera la solista anglo-nipponica chiede alla musica che interpreta un significato sopralinguistico, qualcosa del tipo che Wittgenstein fece col linguaggio nel suo Tractatus logicus-Philosophicus: attribuire un significato è questione di logica e di esistenza. E quel che cerca Dame Mitsuko, a questo punto della sua ricerca, è il nesso che lega suono a emozione. Percorrendo una strada difficile, perché niente di gratuito è avvertibile nella lettura di un autore che è sempre stato celebrato per la sua apparente semplicità.
Solo con gli strumenti della logica di cui questa straordinaria interprete è in possesso è possibile schierare tre grandi Sonate schubertiane e sfoderarle nell’arco di un concerto. Non ci sono clamori, ma solo un paesaggio dell’interiorità da sfogliare, pagina dopo pagina, per appropriarsi dei significati.
In questa ottica diciamo che le cose più semplici sono avvenute nel primo pannello, la Sonata in la minore che vorremmo ancora indicare con l’antica dizione di opera 164, postuma. Le moderne dizioni, con la D, ovviamente molto scientifiche, sanno tanto di classificazioni di locomotive Diesel.
Se vogliamo identificarla come D 537, troveremo comunque nella sua stesura un atteggiamento molto tradizionale: Schubert raccoglie le sue idee e le organizza secondo un percorso di assolute certezze, con visioni di bellezza, suggestione dei temi, sviluppi “ a macchia”, con qualche zampata di leone, sia nella esposizione del primo tempo che nello scatto felino del finale. La Uchida martella senza sconti il suo “fortissimissimo”, poi si ripiega nel mormorio che le è proprio, come recitasse una intima preghiera, una formula sacra ancestrale, il cui significato è noto solo a lei. La asciuttezza della condotta pianistica rende ragione di ciò che vi è di bello, soprattutto nell’Allegretto centrale, una piccola marcia che cela, al suo interno, quel “divagare” armonico che è una delle cifre più caratterizzanti dello Schubert migliore.
Quando ci si prepara ad affrontare i due pannelli della cosidetta Sonata incompiuta, la D 840, ci si chiede cosa abbia spinto la Dama a cercare di dipanare la nebbia che circonda questo pannello rimasto allo stato di progetto, tanto vistoso e scoperto è il piano progettuale del torso. Evidentemente l’interprete ha voluto misurarsi con la vastità del materiale adottato da Schubert, con quella energia misteriosa che ci cela sotto proporzioni abnormi, temi oblunghi e smisurati, campate vastissime piene di risonanze, ma aliene da ogni forma di drammatizzazione dialettica. C’è del misticismo in questa proposta di Sonata, c’è un “inespresso” che richiede di essere decifrato, c’è un Mantra che cela e non spiega. Come fossimo davanti a una antico affresco sbiadito, coi santi poco leggibili e sfondi svaniti nel pulviscolo della parete.
Uno sforzo eroico quello della impassibile signora che ci ha spiegato questo dittico come lo ha capito lei, perduto per sempre, ma ineffabile.
Nessuno pensava, dopo l’intervallo, che le cose si sarebbero fatte più semplici col la sonata finale, che era la monumentale si bemolle che oggi indicano come D 960.
Qui, probabilmente, la Uchida ha realizzato una delle più affascinanti letture del nuovo millennio. Rarefazione è dir poco: forse è quello che provano gli astronauti quando sono nelle navicelle nello spazio siderale. Avverti un suono che viene da qualche parte, ma non credi che scenda dalla pedana che hai davanti agli occhi.
Questo si bemolle vagante, quel trillo che è un brivido sottile, il mormorio dei temi, tutto avvolto dalla nebbia, ma nitidissimo nei suoi fonemi, quella tinta glaciale, il lieve turgore del re maggiore dell’Andante, qualcosa che sembra incedere sull’acqua stigia.
Gli ascoltatori sono tutti nell’incantesimo, non violato neanche da due diversi squilli di telefonini. Quando la Uchida snocciola il tema dello Scherzi rientriamo nella realtà. Ma anche la musica è cambiata e Schubert, ora, sembra porsi il problema, lui stesso, di come finire. Lo fa con l’adozione di un suono singolo, un sol secondo rigo, “ a vuoto”. Per la stessa Uchida sembra come il risveglio da un sogno e il ritorno a una normalità che sembrava dimenticata. C’è uno slittamento avvertibile, ma è chiaro che la struttura del finale non può che essere questa, razionale e discorsiva.
Si ritorna per un attimo nella musica delle Sfere con il bis, un Mozart con un tocco talmente ricercato, selezionato e campionato, che neanche il suo stesso autore avrebbe saputo suonare meglio. Uchuida For Ever.
Stefano Ragni