Due soli numeri in programma, ma ognuno dura quasi un’ora. L’impresa affrontata e risolta ieri pomeriggio da Alexander Lonquic nella sala dei Notari è stata semplicemente straordinaria: Concorde Sonata di Ives e Diabelli di Beethoven, due giganteschi monoliti vaganti nel pensiero musicale, una montagna di musica che si può suonare nella stessa serata solo se si è in possesso di straordinarie doti fisiche e mentali. Lonquic, beniamino da sempre del pubblico degli Amici della musica, l’ardito che, ancor giovanissimo si fece tutti i Concerti con l’orchestra di Beethoven in due indimenticabili serate al Morlacchi, stavolta ha segnato una tacca in più in quello che si potrebbe definire un incredibile atletismo pianistico.
Ora, certo, c’è da chiedersi che bisogno ci fosse di accostare due opere così impegnative anche per l’ascolto: non si fa cultura coi record e il rapporto con il pubblico richiede, oggi più che mai, incredibili cautele nell’assemblaggio dei programmi. Quel che è certo è che l’assemblea degli ascoltatori perugini è in possesso degli anticorpi atti ad assorbire un impatto del genere , alla fine dell’estenuante concerto, rimane in sala per chiedere fuori programma. C’è da dire che, prima del concerto vero e proprio, Lonquic aveva intrattenuto per un’oretta alcuni spettatori in una vera e propria lezione di ascolto sulla sonata di Ives, e questo rende ancora più singolare l’appuntamento domenicale. Parlare sulla musica non è mai abbastanza, e se un interprete spiega la sua strategia di analisi e di lettura accresce il valore dell’ascolto.
A conti fatti l’unica cosa che si sarebbe voluta era la posposizione di Ives a Beethoven. Perché poi tutto parte dalle variazioni Diabelli: la modernità, la crisi, la frantumazione del linguaggio, lo slancio verso il futuro.
Ma se Lonquic aveva deciso così non si poteva che assecondarlo. Concorde sonata dunque di un musicista americano che non faceva professionalmente questo mestiere, ma che si caratterizza per la sua incisiva posizione nella cultura americana degli anni Venti: Concorde è una cittadina del Massachusetts. Qui, a metà Ottocento, si era concentrato il fiore del Trascendentalismo, una corrente filosofica che veniva dall’Europa romantica, e che veniva tradotta dagli statunitensi mediando Kant, Fichte e Goethe dalle riflessioni del pensatore scozzese Thomas Carlyle. Quel che del trascendentalismo kantiano, la teoria dell’apriori, veniva assimilato al modo di pensare dei giovani americani era poi adattato a un nuovo codice di comportamento verso la natura. Non dimentichiamo che in quei decenni non era ancora cominciata la corsa al West e che le campagne contro gli indiani erano drammaticamente in corso. Poi ci sarebbe stato l’incubo della Guerra di Secessione.
Racchiudere questo spirito evocativo in una grande sonata in quattro movimenti, quasi cinquanta minuti di ascolto, era qualcosa che solo un musicista “dilettante” poteva concepire. Con tutti i limiti che impone un gigantismo fragoroso e un vagare per temi a chiazze, con qualche rara oasi di bellezza e molto clangore. Compresi due piccoli interventi di flauto e viola, che Lonquic ha voluto far suonare da due deliziose collaboratrici, Mizuho Ueyama e Claudia Bucchini. Dalla tastiera rombante di Lonquic sono usciti i ritratti dei pensatori trascendentali che Ives voleva rievocare; Emerson, Hawthorne, Alcott (quella di Piccole donne) e Thoreau, l’uomo del silenzio dei boschi. Un appassionato omaggio a una cultura in formazione, ma già orgogliosa dei suoi risultati.
Risultato fuori di ogni aspettativa con il rampante e possente gesto esecutivo di Lonquic. Che, alle diciannove, era appena a metà dell’opera. Perché, dopo l’intervallo, ecco le Diabelli variazioni, esposte all’inizio con una brutalità che veniva dall’esecuzione precedente, poi mediate dall’intelligenza e dall’esperienza dell’esecutore, verro il giusto binario. Nessuno si azzarderà a dire che le sterminate variazioni siano belle; qui avviene veramente la frantumazione del linguaggio dei suoni, come più tardi faranno, in atteggiamenti diversi, Queneau col romanzo e Wittgenstein con i significanti della filosofia. Beethoven mostra come da un soggetto di modestissima fattura si possa declinare il pensiero sonoro su un percorso che da Haendel si avvia verso il Novecento di Debussy e di Sciarrino. Quel che Lonquic ha esposto è stato il disporsi delle infinte possibilità con cui la musica può interrogarsi sulla sua stessa sostanza. Con esiti sublimi nella variazione Venti, uno degli ambiti più misteriosi di tutta la musica europea. Qui c’è veramente la riproduzione di un gesto creatore verso l’infinità del suono del mondo. Se ne era accorto persino D’Annunzio quando, nel suo “Forse che si, forse che no”, parlava di azzurro opaco, sorde, eguale, senza raggio, senza nube, una regione dove solo la ragione impera. L’unica cosa che non ha reso ragione alle Variazioni è che, ascoltarle dopo Ives, toglie loro l’impatto della trascendente modernità. E’ un tornare indietro, dopo che si è esposto quel che la musica di Beethoven imponeva; la frantumazione del linguaggio, come si è detto, la sua reale impossibilità di essere comuniato se non per codici.
Pubblico soggiogato, ma non sazio e Lonquic che propone, col suo gusto timbrico e il suo suono impareggiabile uno Chopin da manuale e un Brahms che stilla dolcezza.
Due bis che sembrano però voler annullare tutta la tensione creatasi: come dire, non vi preoccupate, abbiamo scherzato!
Stefano Ragni