La Procura di Perugia ha chiuso l’inchiesta sul caso di Alma Shalabayeva e della piccola Alua Ablyazova, la moglie e la figlia del dissidente kazakho Mukhtar Ablyazov, arrestate illegittimamente e altrettanto illegittimamente espulse dall’Italia al Kazakhstan nel maggio del 2013 in violazione del diritto di asilo, accusando la Polizia italiana e un giudice di pace di Roma di sequestro di persona. Il Procuratore di Perugia Luigi De Ficchy e i sostituti Antonella Duchini e Massimo Casucci, richiamano responsabilità per due dirigenti di vertice della Polizia di Stato – Renato Cortese, attuale direttore del Servizio Centrale Operativo e all’epoca dei fatti capo della squadra mobile di Roma, e Maurizio Improta, già capo dell’Ufficio Immigrazione e oggi questore di Rimini – accusandoli di una “extraordinary rendition” dissimulata da regolare procedimento di espulsione grazie ad una ininterrotta sequenza di falsi, abusi, omissioni, con la complicità di altri 9 indagati: il giudice di pace Stefania Lavore che avallò la consegna al Kazakhstan, tre diplomatici dell’ambasciata kazaka a Roma (l’allora ambasciatore Andrian Yelemessov, il primo segretario Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari Yerzhan Yessirkepov) e cinque funzionari di polizia già in servizio alla Mobile di Roma e all’Ufficio immigrazione.
Della Shalabayeva e di sua figlia Alua – scrivono i pm – vennero “violati i diritti umani”. Quelli che riconoscono l’intangibilità del diritto di asilo e fissano il divieto di estradare cittadini politicamente perseguitati nei paesi di origine. E lo furono, appunto, con modalità “abusive”, come quelle di tacere la vera identità della donna (che la Polizia italiana conosceva prima ancora del fermo) e la sua reiterata richiesta di asilo dopo l’arresto. E tuttavia, nei venti capi di imputazione che vengono contestati agli undici indagati nell’atto di chiusura indagini, le domande cruciali rimangono senza risposta.
Dalla Questura e dall’Ufficio Immigrati di Roma al Dipartimento della Pubblica sicurezza (in quel momento diretto dal capo della polizia facente funzione Alessandro Marangoni, oggi prefetto di Milano), alla sua segreteria (Alessandro Valeri), all’allora capo di gabinetto del ministro dell’Interno (Giuseppe 7Procaccini), allo stesso ministro Angelino Alfano, da cui partì il “la” all’operazione abusiva del fermo e dell’espulsione della Shalabayeva, tanto da giustificarne la frenesia, in una sistematica violazione dei diritti.