Consigli utili per campare qualche anno in più
di Adriano Marinensi
Durante l’estate appena trascorsa, nel tempo ozioso trascorso sotto l’ombrellone, ho letto, per intero, il risultato di una attuale ricerca scientifica che trattava il tema dell’allungamento della vita. Cosa seria, mica roba da rubagalline, simile a quella del gatto e della volpe che vendono libri e cataplasmi ai pinocchi della televisione, su un canale “padronale”. In verità l’ho letta, non soltanto per passare il tempo.
C’era scritto all’inizio, senza peli sulla lingua: “E’ la vecchiaia la prima causa di morte”. Detto a chi avverte d’essere come d’autunno sugli alberi le foglie, la lettura non parve incoraggiante. Però, ho voluto saperne di più. Ed ecco l’aggiunta: “Proviamo ad evitarla la vecchiaia?” Certo che ci vogliamo provare. Facile a dirsi, al pari delle speranze vane, in quanto, tra il dire e il fare, ci sono di mezzo miliardi di trapassati per raggiunti limiti di età. Sostengono gli studiosi che occorre mettere a punto un reintegratore di giovinezza.
L’obiettivo ovviamente non può essere l’immortalità. Semmai, una senescenza senza sentirsi addosso i segni del declino, senza perdere le capacità intellettive e cognitive. Arzilli ed efficienti, ben oltre i cento, come le tartarughe delle Isole Galapagos. Ipse dixit la ricerca scientifica in atto. Orsù, trovate un posto a tavola che c’è un amico in più: ha oltre un secolo, ma appare tal quale agli altri commensali che ne hanno mezzo.
Cambiare gli attuali stili di vita, fin dalla prima età, è il metodo tassativo. Adottando almeno cinque regole: 1) Dieta sana ed equilibrata (aborro gli eccessi culinari); 2) Mantenere un basso peso corporeo (sono, da sempre, un peso leggero); 3) fare molto movimento (la bicicletta mi fu compagna per monti e per valli); 4) non bere eccessive quantità di alcol (un litro di vino mi dura un paio di settimane); 5) Non fumare (ho smesso più di mezzo secolo fa). Deduzione logica: Se la malattia della vecchiaia si evita così, io sarei vaccinato e immune. Invece, non mi sento per niente tranquillo. E impreco contro l’inventore dell’orologio, del “marcatempo” galeotto.
Comunque, sono andato avanti nella lettura. Ho appreso che i nuovi elisir di lunga vita li hanno utilizzati sugli animali con buon successo ed è già iniziata la sperimentazione umana. Allora, così va meglio. C’è una utopia che potrebbe trasformarsi in realtà. Però, carissima scienza, per favore, fai presto. Per me – come diceva quel tizio dal balcone – attendere potrebbe significare giungere in ritardo. Capito mi hai?
Nelle cronache italiane di 40 anni (esatti) fa, si racconta il gesto eroico di un uomo minuscolo di statura e gigante per coraggio. Va ricordato oggi per quel che fece allora e perché è morto, ancora sulla soglia della vecchiaia, alcuni giorni orsono. Si chiamava Angelo Licheri e mise in palio la propria vita per salvarla ad un bambino di 6 anni, Alfredo Rampi, detto Alfredino, caduto in un pozzo artesiano, nelle campagne romane, lungo la strada di Vermicino. Più che un pozzo, un cunicolo largo meno di mezzo metro e profondo una sessantina, nell’argilla scivolosa.
Dentro quel pertugio cadde Alfredino, il 10 giugno del 1981. Non era tornato a casa quella sera e si misero subito a cercarlo. Il crepuscolo divenne subito scuro, ma la presenza di tanti soccorritori fece chiara la notte. Qualcuno, avvicinatosi ad un pozzo, udì il pianto disperato di un fanciullo che invocava la mamma. Stava li dentro Alfredino, al freddo e nelle tenebre di un sottosuolo lontano una trentina di metri. La notizia del bambino prigioniero nella fossa fece il giro dell’etere e commosse l’Italia intera. Della vicenda si impossessò la T.V. nazionale, organizzando la ripresa diretta: patimmo la T.V. del dolore.
Furono in molti a tentare di riportarlo alla vita. Compreso Angelo Licheri, volontario intrepido, improvvisatosi speleologo. Lo imbracarono con delle funi e lui si fece calare, a testa in giù, dentro lo stretto cunicolo. Scese, ferendosi in varie parti del suo esile corpo, sino al contatto con Alfredino. Lo trovò incastrato in una posa innaturale che non gli permise una presa sicura. Gli afferrò una mano, ma gli scivolò via.
La soglia di sicurezza, per Angelo nella posizione di stare all’incontrario, era valutata in 25 minuti; lui ci rimase tre quarti d’ora, nella tenace determinazione che s’era imposta. Lo dovettero tirar fuori diventato una palla di fango, più morto che vivo. Aveva mancato l’obiettivo, però con un atto al limite delle possibilità umane. Rifiutò premi e medaglie. Diceva: “Ho fallito, come posso accettarli?”. Se n’è andato in silenzio, come aveva vissuto, prima e dopo i fatti di Vermicino. Ora, lassù, sarà veramente l’Angelo (custode) di Alfredino.
La temperie dei sentimenti di quanti parteciparono alle operazioni, fu raddoppiata dallo strazio della madre, inchiodata sull’orlo del pozzo e della disperazione, che udiva spegnersi i lamenti del figlio sepolto ormai nella tomba lontana. Il pomeriggio del terzo giorno, la sonda usata per captare i minimi battiti cardiaci, non dette più alcun segnale: Il bimbo era morto, la tragedia s’era conclusa, dopo una interminabile agonia, in una macabra solitudine. Ci volle quasi un mese per recuperare il corpo, poi sepolto nel Cimitero del Verano a Roma. Considerata la grande partecipazione dell’opinione pubblica, disse Emilio Fede: “Se, in quei giorni, fosse avvenuto, in Italia, un colpo di Stato, la gente avrebbe risposto “va bene, però lasciateci vedere in T.V. cosa accade a Vermicino”.