di Adriano Marinensi – Ad osservarlo a distanza di oltre 30 anni, lo possiamo denominare la goliardata del secolo. Ma, il mondo dell’arte – quello dei soloni illuminati dalla grazia, che, talvolta, nelle recensioni, mette in fila parole ridondanti – ne uscì con le ossa rotte. L’inizio della pochade ha un riferimento certo: l’estate del 1984. Le cronache dell’epoca l’hanno raccontata così. C’è, a Livorno, una mostra celebrativa del centenario della nascita di Amedeo Modigliani, livornese verace. Però quelle 4 sculture esposte (delle 26 a lui attribuite) sono poche e l’iniziativa non decolla.
Allora, qualcuno ha un colpo di genio: si ricorda di una vecchia leggenda metropolitana, secondo la quale alcune opere che non lo avevano soddisfatto, l’insigne maestro le aveva gettate nel Fosso Reale di Livorno. Detto fatto, viene allestita una draga che inizia a scandagliare il fondale melmoso e suonata una sonora grancassa mediatica per dare risalto alla singolare operazione di recupero. A questo colpo di genio fa eco una idea luminosa venuta in mente ad un terzetto di giovanotti in vena di tiri birboni. In tutta segretezza scolpiscono delle imitazioni di quei faccioni alla Modigliani, di forma ovale, un naso da non finire mai, la bocca appena pronunziata. Poi, nottetempo, le gettano laddove la draga stava scavando. Ed ecco il miracolo: la vox populi era pura verità!
Possibile che Amedeo Modigliani le avesse buttate nella “marana” e perché? Visto il caratteraccio dell’artista, in aperta polemica con i suoi concittadini, prima di scapparsene a Parigi – si ipotizzò – avrà voluto vendicarsi a suo modo, affogando le preziose sculture. Ci poteva stare. Di qui l’affollamento dei pareri circostanziati a favore della sicura autenticità. Un coro di meravigliati e commossi consensi e tanti applausi per la bella scoperta. Quei Modigliani, recuperati in una botta sola, andavano osannati per grazia ricevuta. Non mancò l’avventurosa “patacca”: La meditazione e la scarsità degli interventi, sempre pochi, però decisivi, conferma la similitudine dei processi esecutivi. Boh! Un altro: La permanenza nel fango si è protratta per tempi non precisabili, ma misurabili in decine di anni. Comunque, a sentire i competenti, il patrimonio culturale del nostro stivale s’era arricchito di un tesoretto in più.
L’arte è arte (mica una pinzillacchera, come diceva Totò) e chi se ne intende la riconosce dall’odore. I reperti in pietra arenaria, modellati dai giovanottelli, avevano superato brillantemente l’esame comparato di genuinità e furono elevati al rango di oggetti preziosi. Se non fosse stato blasfemo, si sarebbe detto di sicuro, la pietra scartata dal costruttore (Modigliani, appunto) è diventata testata d’angolo. Si andò avanti sino al 3 di settembre, quando sul settimanale Panorama uscì una intervista rilasciata da tre ragazzi di Livorno, tre pazzerelloni, i quali sostenevano: Ovvia, o grulli, le teste le abbiamo scolpite noi! Poi le abbiamo lanciate nel fosso per vedere l’effetto che fa. E tantissimi in coro: Come, come? Ragazzi, con Modigliani non si scherza. Macché, sono dei mitomani sconsiderati, autori di una celia di pessimo gusto. Al rogo, al rogo, come Savonarola, nell’arengario del Palazzo della Signoria in Firenze.
Dalla Galleria d’Arte moderna di Roma, ecco un’altra voce in capitolo, pressappoco così: Si tratta di una evidente macchinazione, ordita per scolorire il timbro di autenticità apposto sopra le teste con inchiostro indelebile. Quindi, per carità, non si parli di bufala, altrimenti ci arrabbiamo. Quei tre sono dei Pinocchi con due palmi di naso e Carlo Lorenzini, detto Collodi (quello si, toscano serio) li avrebbe riconosciuti pure di notte. Loro però insistevano: le teste sono opera nostra e non dell’arte. Abbiamo imbrogliato, ma senza malizia e senza dolo. A mischiare le carte in tavola ci si era messa anche la figlia di Modigliani (quello vero), la quale, da Parigi, aveva espresso dubbi sulla genuinità dei faccioni. Pure lei, però! Si imponeva quindi la prova del fuoco, una sorta di ordalia, celebrata dinnanzi al sacro nume della TV, durante la quale i tre Buffalmacchi avrebbero dovuto scolpire un’altra testa uguale alle ripescate. Così s’ha da fare e così si fa.
Tosto viene allestita una adeguata messa in scena negli studi RAI di Via Teulada, a Roma, con una ridda di telecamere guardone ad immortalare l’evento. Venute pure d’oltralpe. Sopra un grosso tavolo da atelier dell’artista, sistemano una pietra intonsa (che, a trasmissione ultimata diventerà la pietra dello scandalo). Dietro il bancone, ecco i tre pseudo artisti con le attrezzature del mestiere. Puntualmente messe a verbale dal sor Notaro, chiamato ad autenticare l’evento: Tre martelletti, una mazzetta da muratore, quattro scalpelli, un trapano, tre spazzole di ferro, alcuni gessetti.
Si comincia. Tun, tun, tun, col martelletto ed ecco i primi lineamenti di stampo Modì e il naso tipo buattone africano. Uno dei tre mastica gomma americana e bofonchia: Speriamo che questa pietra non faccia la bischera. Macché, dopo qualche ora di lavoro, di tanti fiati sospesi e di critici d’arte a gufare contro, ecco a voi, signore e signori, la faccia bella e fatta. Tale e quale a quelle ripescate nel fango, certificate originali e invece erano un plagio. La premiata ditta della burla ha colpito sonoramente.
Il pasticciaccio brutto di Via del Fosso Reale s’era concluso, lasciando dietro di se un oceano di polemiche, di sogghigni, di lazzi e frizzi. Sopra quelle facce molti ci avevano messo la faccia e la figuraccia. Un mondo fatto di artisti veri, ma anche di tanto mercato e di “arte allo specchio”, cioè di arte sedicente che imita quella genuina. E talvolta la spaccia pure. La vicenda dei falsi Modì aveva finito per scoperchiare più di un altarino, costruito intorno e sotto l’arte moderna, che talvolta somiglia al gioco delle tre carte: carta vince, carta perde! Dov’è la vera arte? Questa volta in molti avevano scommesso e perso clamorosamente.
Scrisse nell’occasione Renato Guttuso: La concorrenza, nel mondo del mercato d’arte, è del tutto particolare. Le quotazioni di un artista, il rialzo, la crescita, la stasi, non sono paragonabili alle quotazioni dei titoli di borsa. Troppi gruppi sono coinvolti. Nessun mecenate d’arte, nessun responsabile di una casa d’arte, nessun critico accreditato finirà mai sotto il Ponte dei Frati neri. Un giudizio piccantino. Il clima dei giorni successivi alla scoperta dell’inganno, somigliò molto al film “Amici miei”, con i professori affacciati al finestrino del treno, presi a schiaffi dai Tognazzi e compagni di turno.