Questa è vera idolatria. Mai vista una cosa del genere alle fine di un concerto di quartetto d’archi. Ieri sera in San Domenico tutti in piedi ad applaudire Uto Ughi: urla inverosimili, gente che si accalca per fotografare, invocazioni di Vivaldi! Paganini!
Con Laura Musella che, sulla scalinata dell’altare non sa come fare per passare il microfono a monsignore il Vescovo, a Carmela Colaiacovo per la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, al sindaco Stirati.
Mazzi di fiori, libroni in omaggio e un generale imbarazzo, perché nessuno vorrebbe uscire e si spera ancora in un altro bis.
Don Giuliano, il parroco, vorrebbe accendere la luminaria integrale, ma qualcuno gli dice che non c’è bisogno, perché la luce che brilla a oltranza è già quella del grande violinista lombardo.
Eppure tutto era pensato per essere un evento austero come quello ci si aspetta da un quartetto d’archi che suona Schubert e Dvorak. Omaggio all’Umbria riportava nella città di Sant’Ubaldo un beniamino del pubblico che lo aveva più volte applaudito.
E il contorno era quanto mai casto.
Uto in quartetto con Marise Règard, la violinista francese, per anni spalla dell’Orchestra di santa Cecilia, indi dei Filarmonici di Roma, formazione dalla quale abitualmente si fa accompagnare; dall’altro lato la viola del giovane barese Marco Misciagna, corde di lusso, e il violoncellista Luca Pincini, studi al Morlacchi di Perugia, carriera stellare.
Quattro talenti, due generazioni al leggio, diverse latitudini di esperienze per convincersi che non è un quartetto, ma sono quattro musicisti che suonano insieme. Il quartetto è disciplina, formazione speculare, maturazione in tempi distillati. E’ chiedere troppo a un violinista “zingaro barone”, rapsode estroso, creatore a scintilla, musicista che assorbe umori e perplessità del pubblico, riversando le sue emozioni su quello che suona.
Chi ha seguito la sua carriera e le sue continue presenza a Perugia, ai concerti di Alba Buitoni, la sua parziale eclissi e poi il recupero operato da Omaggio all’Umbria, non può che constatare come il musicista dello Stradivari-Kreutzer non sia stato domato dalla vita. Intatto in lui quel guizzo luciferino, che, in letteratura, potrebbe tradursi in quel personaggio del violinista Albert, protagonista di un romanzo breve di Tolstoj. Dove il grande drammaturgo russo sosteneva, a buon diritto, che con la disciplina e il rigore si fa al massimo un Leopold Mozart. Il principe dell’archetto è invece qualcosa di fluido, di mutante, di viscoso: ti si appiccica addosso anche se vorresti razionalizzare quello che senti e che, magari, non ti convince del tutto.
All’inizio del concerto, ad ascoltare Ughi spiegare, col microfono, cosa dovrebbe succedere nel quartetto “La morte e la fanciulla” di Schubert, avviene già il distacco da cosa è didascalico e cosa dovrebbe essere ammaliante.
Spiegare annulla la drammaticità di cosa viene dopo.
E poi, Uto che si siede e che sembra quasi uno studente quando comincia a dialogare con gli altri in una partitura che è lacrime e sangue, non solo per il titolo, ma per cosa rappresenta nel grande romanticismo tedesco: un Faust al femminile, un Thomas Mann, un Dürer, una Deposizione dalla Croce di Pontormo. Poco prima del Lied, ovvero del dialogo tra la Morte e la Fanciulla, Ughi spezza l’incantesimo e riprende il microfono. Non si dovrebbe fare, è contro tutte le leggi dello spettacolo, ma il pubblico se lo aspettava, perché il violinista lo aveva annunciato prima. E tutti pendono dalle sue labbra, quasi fosse Sgarbi che vaticina. Per fortuna, nel corso delle variazioni, Luca Pincini va sentire il suo violoncello possente una voce patriarcale, da nobile baritono, cavata profondissima. Niente, poi, per il vorticoso minuetto, con la ragazza che non sa se portare o meno il microfono, ma prima del tumulto finale, la cavalcata dell’ultimo giorno, ecco di nuovo la beata didascalia: Schumann aveva detto di Schubert che la sua era un “divina lunghezza”, quindi godetevi il divino e sopportate la durata. Per gli ascoltatori sembra un libro stampato e ci scappa anche qualche risatina.
Ora, si sa, la tentazione del microfono non è solo dei politici: mentre ci si vorrebbe godere un meritato intervallo, anche noi del pubblico, Ughi riprende a parlare, coi suoi sodali che se la svignano in sagrestia. “Ora il quartetto Americano di Dvorak, quello della Sinfonia del Nuovo Mondo e il canto dei cow-boys che lui raccoglieva nella sua permanenza a New York”. I vaccari stavano un po’ più lontano, in realtà, e Dvorak assimilava quel denso substrato di canti degli emigrati irlandese, scozzesi e inglesi che costituiva il suono di nostalgia e di solitudine di chi arrivava nell’ Hudson River alla ricerca di un futuro migliore. La musica è esasperata, oscilla tra queste ballate anglosassoni e il turbinio di sensazioni con cui Dvorak, anche lui migrato parziale, sogna la sua Boemia. Dopo questa lettura un po’ costretta, ma alla fine convincente, il pubblico si chiede: e adesso?
E ora comincia l’indescrivibile: Ughi chiede al pubblico cosa volete che suoni?
E si scatena la corrida.
Paganini? Eccolo! Quando impugna il suo Guarnieri del Gesù del 1741 sembra una ostensione. In piedi, finalmente, come un guerriero del tempo dei cavalieri, Uto attacca quella formidabile silloge di Capricci di Paganini su cui, da giovane agitava i suoi capelli biondi. Ora sono grigi, ma lo smalto esecutivo è intatto: disordinato, travolgente, impeccabile nell’intonazione, corde acute sfiorate come gemiti di piacere. Il demonico, scrisse Goethe quando ascoltò Paganini a Francoforte.
Meraviglioso, diciamo noi, persone normalissime, ingoiati dal vortice-Ughi.
Su questo straordinario musicista è uscito un libro biografico che non rende conto delle ragioni profonde della sua capacità di magnetizzare tutti. Non è questione di simpatia: è fascino. Ci vuole ancora una altro bis, un castigato Bach, per disperdere il pubblico che gremiva la grande chiesa dei Predicatori.
Laura Musella ringrazia la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia che ha reso possibile un concerto non facilmente dimenticabile.
Stefano Ragni