Di Marina Sereni (*) – Invidio quanti riescono a commentare con intelligenza, acume e argomenti infallibili un risultato elettorale come quello di questa notte negli States. Leggo riflessioni effettivamente oneste e interessanti accanto ad un mucchio di banalità infarcite di “senno del poi” di cui, come dice il proverbio, son piene le fosse.
Ha vinto Trump. Hanno perso Hillary Clinton e i Democratici. Hanno perso un po’ anche i Repubblicani moderati, i grandi giornali, i tanti sondaggisti che, pur registrando i limiti e le debolezze della candidata democratica, la davano per favorita forse perché troppo influenzati dal loro stesso giudizio sul politicamente scorretto e impreparato Trump.
Il voto degli elettori va sempre rispettato. Ma il fatto che abbia vinto un’elezione democratica non mi sembra renda Trump migliore. Mi sembra piuttosto sensato attendere che si passi dalle parole (spesso ingiurie) della campagna elettorale alla concreta azione di governo per dare un giudizio. Ciò non toglie che gli slogan con cui Donald Trump ha conquistato la maggioranza dei voti continuino ad essere, per me, sbagliati, demagogici, inadatti a dare risposte vere ai problemi veri che la globalizzazione ha prodotto di qua e di là dell’Atlantico. Mi auguro quindi, per il ruolo che gli USA sono chiamati a svolgere comunque nel mondo inquieto e carico di contraddizioni di oggi, che le scelte del futuro Presidente degli Stati Uniti d’America farà si discostino alquanto dalle sue “promesse elettorali”. Per esempio sull’ambiente e i cambiamenti climatici, sui diritti delle minoranze, sulle crisi aperte in diverse aree anche molto vicine all’Europa e all’Italia, sul governo dei fenomeni migratori…
Altra cosa è riflettere sulla lezione politica che ci viene da questo voto a pochi mesi di distanza dal referendum britannico sulla Brexit. Vince di nuovo la paura sulla speranza, vince la rabbia sulla fiducia, vince il “basso” rispetto all’”altro”, vince il “nuovo” rispetto al “vecchio”.
Questa mattina tra i tanti commenti in 140 caratteri su Twitter ne ho letta una che diceva più o meno così: “il voto di protesta è quando per antipatia del medico si sceglie la malattia”. C’è un elemento di verità ma questa lettura non può essere di consolazione: perché il “medico” è antipatico? Perché la competenza, l’esperienza, i programmi sono così poco importanti? Perché chi li incarna appare (e qualche volta è) distante dalla realtà del cittadino comune, dalla sua sofferenza e insicurezza, dalla sue ansie e paure. Insomma perché la politica tradizionale non riesce più a far scattare la connessione sentimentale con le persone in carne ed ossa. Un dato macroscopico che, di fronte alle trasformazioni tumultuose che stanno avvenendo (e che nessun Trump potrà fermare), rischia di minare alle fondamenta le democrazie liberali come le abbiamo conosciute. Che fare? Arrendersi alle ricette demagogiche di questa “nuova destra”? Vagheggiare un ritorno alla sinistra “dura e pura” che ovunque raggiunge percentuali di consenso irrisorie? Rinchiudersi nel fortino dell’establishment, difendendo lo status quo sperando che l’onda passi senza travolgerci? Oppure provare a costruire e a raccontare un “cambiamento possibile”? Come avrete capito penso che l’unica strada percorribile – difficile ma percorribile – sia quest’ultima. Raccogliere la sfida del cambiamento, provare ad essere noi quelli che la traducono in leggi, programmi, proposte concrete. Non avere paura di irritare quelli che stanno “in alto”, cercare di far stare un po’ meglio quelli che stanno “in basso”. Compito molto difficile, cui però non ci si può sottrarre. Renzi, con tutti i limiti, ci ha provato e ci sta provando. Preferisco chi dà una mano a chi sta alla finestra aspettando che si fallisca.
(*) vice presidente Camera dei Deputati