Di Adriano Marinensi – La storia del XX secolo, per l’Italia, ha una data segnata dal destino (spregevole e malfattore): il 28 ottobre 1922. Le “legioni” di Mussolini marciarono verso Roma alla conquista del potere, affidato poi dal pavido Sovrano al futuro duce del fascismo.
Iniziava, in quell’autunno piovoso (“Era nera la camicia, come il cielo che pioveva …”, cantava il ritornello di una canzonetta d’epoca) il ventennio funesto, il trionfo dell’antipolitica, del “libro e moschetto, balilla perfetto”, dell’autarchia, delle avventure guerresche. Al centro la figura strabordante del maestro di Predappio, destinata ad attraversare la narrativa e la letteratura per finire all’inferno della storia, dopo aver calpestato furente vent’anni di vita italiana ed europea.
Chissà che, un giorno, qualche tragediografo non la traduca in un’opera teatrale a tinte fosche come Shakespeare fece con Giulio Cesare e la romanità, cui il duce ha tentato di vincolare la sua figura, le gesta, la simbologia, la tirannide. Con l’aggiunta dello scempio estremo causato dalle avventure delle guerre. Nella “biografia” del fascismo, dei suoi fasti e nefasti eventi, alcune pagine, purtroppo invano, le scrissero gli attentatori alla vita di Mussolini. Reali o presunti che fossero. Fallirono tutti e fu così che, tra i deliranti seguaci del culto del capo, prese credito il convincimento fideistico della sua invulnerabilità.
Cominciò Tito Zaniboni, valoroso combattente della prima guerra mondiale, Deputato socialista. Aveva tentato inutilmente la via del contrasto alla violenza delle camicie nere, soprattutto dopo il delitto Matteotti (12 giugno 1924). Fu quell’omicidio politico un grosso inciampo per Mussolini, non ancora consolidato sul trono sghembo della dittatura, malgrado il suo piglio minaccioso verso il Parlamento: “Potevo fare di quest’aula sorda e grigia, un bivacco di manipoli …” Quindi, nel gennaio 1925, il duro discorso con il quale si assunse “la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto avvenuto …” Compreso l’assassinio di Giacomo Matteotti. Scellerato quel discorso, quanto il processo farsa che tutelò i sicari e i mandanti. Nell’occasione, lo stesso Capo del Governo impose ai Prefetti di “dare giuste direttive alla stampa fascista e filofascista”. L’ordine fu di “ridurre all’essenziale il resoconto del processo, evitare fotografie, titoli drammatizzanti e commenti.”
Tito Zaniboni – trovata chiusa la strada del contrasto popolare allo squadrismo – pensò di abbattere, a mano armata, il supremo gerarca del fascio. Non era però un sicario bene accorto, qualcosa fece sapere in giro, una “soffiata” giunse alle orecchie della polizia ed egli venne arrestato, prima di portare a termine l’operazione. Il 4 novembre 1925, Mussolini doveva pronunziare un discorso celebrativo dal balcone di Palazzo Chigi, ove allora si trovava il suo studio di Presidente del Consiglio. Aveva già fissato alcuni paletti del regime. Nei Comuni stava per arrivare il Podestà al posto del Sindaco. Poi lo smantellamento del sistema parlamentare, l’abolizione dei Sindacati, l’”ordine nuovo” dei fasci e delle corporazioni. Mentre negli U.S.A. inventavano il fonografo elettrico e in Germania la gomma sintetica, il duce istituiva la M.V.S.N. (Milizia volontaria per la sicurezza nazionale), successivamente l’O.V.R.A. (Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo) e pure l’O.N.B. (L’Opera nazionale balilla) che mise in divisa i fanciulli dagli 8 ai 12 anni.
Alla apoteosi del maschio italico, contribuirono non poco i trionfi dalla Nazionale azzurra di calcio, conquistando il titolo, a Roma, nel 1934, (2 a 1 sulla Cecoslovacchia, con reti di Orsi e Schiavio) e, a Parigi, nel 1938, (4 a 2 sull’Ungheria con due gol a testa di Colaussi e Piola). Nello stesso anno (1938), XVI dell’ Era fascista, il film patriottardo “Luciano Serra pilota”, con Amedeo Nazzari e Germana Paolieri (regia di Goffredo Alessandrini) aveva vinto, a Venezia, la Coppa d’oro Mussolini.
Ma torniamo a Tito Zaniboni ed a quel 4 novembre 1925. Da dietro la finestra dell’Hotel Dragoni in Largo Chigi, s’era appostato con il suo fucile per sparare sul balcone del Palazzo presidenziale che stava proprio di rimpetto. I balconi, si sa, sono stati, per l’algido dittatore nero, un po’ come il miele per l’orso. Da li, troneggiando, avrebbe dovuto arringare la solita folla plaudente. Tutto era pronto per compiere l’”insano gesto”: l’arma puntata, i colpi in canna, nessuno scampo per la vittima illustre. A quel punto, tal quale ai gialli di rispetto, entrò in azione il solito Commissario. Arrestò il reprobo e lo tradusse a Regina Coeli dove il mancato sicario confessò, non si sa se con le buone oppure no, i particolari del suo piano criminoso, chiamando in correo il generale Capello, ch’era stato Comandante d’ armata durante la Guerra ’15 – 18.
La notizia si sparse in un baleno e il cavalier Benito, da grande “comunicatore” qual’era (l’altro Cavalier B. non era ancora nato) non perse l’occasione per arruffare la moltitudine adunatasi sotto il fatidico verone. “Popolo di Roma …” e giù un caloroso grazie per “la unanime riprovazione dell’ignobile trama”. Che se avesse raggiunto lo scopo infame, avrebbe ucciso – disse – “non il tiranno, ma il servitore quotidiano del popolo d’Italia”. La turba all’unisono : “Morte ai pervertiti!” I pervertiti, Zaniboni e Capello, furono condannati a 30 di reclusione. (continua)