La vita in fuga dai pericoli e dalla barbarie quotidiana
Di AMAR
La notizia è recente. Parla di audacia e disperazione. Una mamma ucraina percorre centinaia di chilometri i lascia la propria casa, il proprio paese, per far nascere il figlio che porta in grembo, lontano dai repentagli della guerra. E viene in Umbria a partorire. Chi ha vissuto il privilegio di 70 anni di pace è attonito, incredulo che questi eventi possano accadere nell’epoca della civiltà avanzata.
Al cospetto, l’aggettivo (avanzata) diventa una pretesa, quasi appropriazione indebita. C’è tutto lo sgomento nel quale sono precipitati milioni di cittadini, la sofferenza di popolazioni martoriate dalla soverchieria delle armi. E quindi la scelta di un luogo di pace per tutelare la vita (forse l’avvenire) del bimbo che nasce. Decisione estrema, dettata dall’emergenza immanente.
Tutte le guerre sono nefande, vituperevoli quelle di aggressione. Come l’attacco avventuroso della Russia all’Ucraina che fa riecheggiare la catastrofe umanitaria, sociale, economica derivata dalla hitleriana protervia nell’invasione della Polonia (2 settembre 1939). Di quell’inizio, esiste la testimonianza fotografica: ritrae un gruppo di soldati tedeschi nell’atto di spostare una sbarra di confine. Stavano spostando la storia del mondo verso la rovina.
Tutte le guerre sono da ripudiare, come scritto nella nostra Costituzione. C’è però una differenza sostanziale tra quella combattuta dall’aggressore e l’altra dall’aggredito. E’ naturale che il Paese invaso reagisca, la Resistenza inevitabile, spesso patriottica, talvolta eroica. La sperimentammo contro i nazisti e i loro soprusi, gli eccidi ancora presenti nella memoria nazionale: Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, le Fosse Ardeatine. Sperimentammo pure l’odio delle foibe in Venezia Giulia, Quarnaro e Dalmazia, infami “effetti collaterali” della avversione razziale.
Sulla scena, vagavano i fantasmi. Le crisi umanitarie, i dissesti economici, la precarietà, il vilipendio, le deportazioni, la violenza sulle donne, le marocchinate di Cassino (1943). La megalomania e la prevaricazione del più forte, del meglio armato, sta imponendo la replica in Ucraina. Guai al mondo! La vita in fuga, il disagio, le famiglie scompaginate, disperse, gli sfollati. L’ombra della morte in faccia.
E’ ancora lì, sotto casa mia, in campagna, il ricovero antiaereo. Fa da monito per ricordare le tante ore trascorse sottoterra, pure le notti, nella penombra delle fiammelle ad acetilene, l’afrore acre della promiscuità numerosa, il rimbombo che veniva dall’esterno. Il pregare più o meno devoto, uno scavare sempre più profondo, sospinti dal coraggio della paura. Eccola l’Ucraina di oggi. Ogni diritto, ogni regola di giustizia rimossa. Il sovietico ha fatto strame d’ogni norma sociale consolidata. Irriguardoso dei richiami alla pace. E pare che soltanto la prima parte della tragedia sia stata scritta. A lettere di sangue. Fermarsi è invece la decisione imposta dalla ragione a Caino.
All’ingresso del Belvedere superiore della Cascata delle Marmore sta scritta l’invettiva di Piero Calamandrei, lanciata contro il capo delle forze armate d’occupazione in Italia. Dice: Lo avrai camerata Kesselring il monumento che pretendi da noi italiani, ma con che pietra si costruirà, a deciderlo tocca a noi. Non con i sassi affumicati dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio, non con la terra dei cimiteri dove i nostri compagni giovinetti riposano in serenità (…) Ma soltanto con il silenzio dei torturati più duro d’ogni macigno (…) Soltanto con la roccia di questo patto giurato tra uomini liberi che volontari si unirono per dignità non per odio. Su queste strade, se vorrai tornare, ai nostri posti ci ritroverai, morti e vivi con lo stesso impegno, popolo serrato intorno al monumento che si chiama, ora e sempre, RESISTENZA. Adesso occorrerà trovare, in Ucraina, un altro Calamandrei che scriva uguale contumelia per l’attuale zar del Cremlino.