E l’altra, seppur minore, delle teste di Modigliani a Livorno
di Adriano Marinensi
Oggi si parla frequentemente delle fake news, diffuse attraverso i canali dell’informazione elettronica di massa. Stanno diventando un problema serio di alterazione d’ogni forma di deontologia, oltre che di invadente intrusione nel comune rapporto civile e culturale. Con qualche palese difficoltà nel distinguere il vero dal falso, tale da mistificare il fine democratico della comunicazione, a causa del basso profilo morale degli impostori. Il fine spesso è orientare l’opinione pubblica a proprio tornaconto. Curiosamente, nell’Odissea, c’è Ulisse che, per imbrogliare Polifemo, dice di chiamarsi Nessuno.
E’ la società globale che favorisce il raggiro e limita le possibilità di controllo. Persino, la grida, forma di informazione premedievale, prevedeva la verifica della notizia diffusa, da parte dell’Autorità. Oggi, esiste un tipo di informazione generale che colpisce l’opinione pubblica e deforma la realtà, creando problemi sociali. Ha carattere di semplicità il meccanismo di propalazione della menzogna considerata invece verità dall’utenza. C’è quindi l’urgenza di restringere il campo alla falsità informativa in modo che il cittadino possa distinguere l’oro dal princisbecco. E sempre più spesso la quotidianità mediatica risulta alterata.
In passato recente, furono fatti episodici, però eccone uno ragguardevole come il mirabolante ritrovamento dei Diari di Adolf Hitler. Accadde nel 1983. Il famoso (e credibile) settimanale tedesco STERN fece lo scoop del secolo: annunciò al mondo di essere entrato in possesso di questo importante documento segreto, costituito – nientemeno – da sessanta volumi, scritti di proprio pugno dal Fuhrer, tra il 1932, la vigilia dell’ascesa al potere, e il 1945 l’anno della morte nel bunker di Berlino. La notizia – bomba venne diffusa con il risalto che meritava, di fronte ad una ridda di giornalisti e di emittenti radiotelevisive. Non erano mica le memorie della cameriera al servizio della Contessa Mazzanti Vien dal mare, inventata dal ragionier Fantozzi!
Si trattava di un “patrimonio dell’umanità” destinato a fare da punto di riferimento in ogni forma di studio, di interpretazione, di analisi del pensiero nazista e dell’uomo che aveva sconvolto e violentato l’Europa intera. Seguì, ed era ovvio, sugli organi di informazione, un rumore assordante. Quel malloppo di libri poneva l’ideologia nazional socialista e il suo demiurgo al cospetto e al giudizio della grande storia, senza veli e interpretazioni di parte.
I diari avevano un solo difetto: erano falsi. La mano del Fuhrer non ci azzeccava affatto. Eppure allo scopritore, un giornalista dello STERN, erano costati un bel mucchio di marchi: 9 milioni. Li aveva comprati da un pittore, tale Konrad Kujau, credendo di andare incontro ad un colossale trionfo. D’altro canto, il giornalista era un accanito cercatore di reperti nazisti e, in precedenza, s’era comprata la barca appartenuta al grosso gerarca (grosso pure di corporatura) Hermann Goring. Gli fecero credere che, nel 1945, un aereo tedesco, in missione segreta con a bordo documenti del regime, era caduto vicino a Dresda e, tra i rottami, erano stati recuperati i diari.
Una mastodontica macchina fu messa in moto per la pubblicazione su prestigiosi organi di stampa. Valenti calligrafi e qualche famoso storico del nazismo ne avevano, di primo acchito, certificato la “compatibilità”. Poi, il dubbio impertinente dei soliti pignoli pretese la certificazione degli analisti. E la chimica scoprì la magagna: sia l’inchiostrò, sia la carta erano databili in epoca successiva alla fine della 2^ guerra mondiale. C’erano persino tracce di poliestere, prodotto chimico inventato negli anni ’50 del ‘900. Dunque, l’apocrifo era servito. Il manipolatore Kujau finì in Tribunale che lo condannò, per il colossale “incendio informatico” che aveva appiccato, alla modica pena di quattro anni e poco più. D’altro canto, ad un imputato che ha avuto la certosina pazienza di scrivere a mano una tale catasta di libri, gli vuoi dare l’ergastolo?
Livorno e le teste tarocche di Modigliani
Ed eccoci a Livorno, sulle sponde dei Fossi Medicei, in un giorno di luglio dell’anno 1984. Una draga sta scandagliando il fondo melmoso alla ricerca della convalida storica ad una vecchia vox populi, secondo la quale l’artista Amedeo Modigliani, ad inizio secolo, insoddisfatto di alcune sue sculture, le avrebbe gettate proprio in quel torrente. A Livorno si stava celebrando con una mostra il centenario della sua nascita e l’iniziativa, malgrado la grancassa, era rimasta nell’ombra. Dare sostanza di verità alla leggenda, sarebbe stato il colpo di teatro per lanciare l’esposizione alla grande. Nessuno aveva fatto i conti con tre studenti universitari livornesi ai quali venne l’uzzolo di organizzare una zingarata, ispirandosi forse alle altre viste al cinema nel film Amici Miei.

Presero dei blocchi di travertino, lo scalpello, il martello, il trapano acquistati dal ferraiolo e si misero al lavoro, sulla falsariga di quei faccioni rotondi, tipici di Modi, col naso lungo similmente alle maschere delle tribù selvagge. Nottetempo l’opera eseguita da quegli scultori della domenica finì proprio nel punto dove il dragaggio era in corso. Ovviamente il tempo del rinvenimento fu breve, mentre squillante l’eco dell’esultanza. Secondo il parere illuminato dei maggiori critici italiani, il patrimonio d’arte e di cultura del nostro Paese s’era arricchito di altre preziose testimonianze. E giù un dotto sproloquiare attorno a tanto reperto.
Il che produsse un po’ di sconcerto nei tre bischeri increduli di così grottesca situazione. Pensarono ovviamente, se siamo noi gli autori, come è possibile accreditare il lavoro a Modigliani? E poi, tutto quel can can che aveva trasformato la corbellatura in una cosa seria. Occorreva fare chiarezza in nome della verità. Quindi, la confessione. Che, siccome sbugiardava il parere di indiscutibili competenti, venne a sua volta sbugiardata. Lo scherzo – si disse – stava proprio nella confessione, perché il giudizio espresso era inappellabile. E la corbelleria divenne una cosa seria.
Allora, non rimaneva che dare testimonianza pubblica della dichiarazione resa. Di nuovo i tre, muniti di scalpello, martello e trapano, in diretta televisiva, di fronte ad una miriade di curiosi, per rifare, tal quale, la faccia rotonda col naso lungo, lungo. Una “pinocchiata”. Arte apocrifa, si capisce, però uguale al ripescato e quindi sufficiente ad omologare la ridanciana vicenda, rivelatasi per ciò che era: una clamorosa cantonata degli “autenticatori”, condita forse con qualche goccia di presunzione. Una fake news a regola d’arte.