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Home » Terni, 11 agosto ’43: Le bombe sopra la città e i ricordi di quelli che stavano sotto
Opinioni

Terni, 11 agosto ’43: Le bombe sopra la città e i ricordi di quelli che stavano sotto

admin06 Mins Read
Boeing B-17E. (U.S. Air Force photo)
 
 
 

Se ne parla in un capitolo del libro “Biografia di una città” di Alessandro Portelli

di Adriano Marinensi

I signori della guerra, che non hanno memoria di quel che accadde durante il secondo conflitto mondiale (1939 – 1945), continuano ad alimentare le tragedie a danno dei popoli ucraino, palestinese, israeliano e altrove. Sulla scena c’è la violenza inaudita, i crimini efferati, le distruzioni. E, dietro le quinte, i ricostruttori in attesa. Oggi come in passato quando vissi, per mia fortuna senza danni, la ventura che vide Terni martoriata e centinaia di concittadini sotto le sue rovine. A partire esattamente da 81 anni fa.

Ho trovato una puntuale descrizione di ciò che accadde, a Terni, durante il periodo dei bombardamenti (11 agosto ’43 – 14 giugno ’44) in un libro che propone la vicenda attraverso le testimonianze di molte persone che gli avvenimenti li subirono. C’erano, nel territorio comunale, allora come oggi, due grandi aziende: L’Acciaieria e la Fabbrica d’Armi che lavoravano per la guerra.  Nel 1940, l’Acciaieria contava quasi 10.000 occupati e la Fabbrica d’Armi circa 6.000.

All’inizio del conflitto, l’impresa bellica mussoliniana fu addirittura guardata come fattore di benessere per una comunità industriale qual era la nostra. Questa opinione diffusa mutò, in modo drastico e tragico, quel terribile giorno di agosto, al cospetto di una città che il giorno prima c’era e il giorno dopo non più. Gli aerei colpirono soprattutto il centro abitato e fu un’apocalisse. Quella prima incursione terrificante, alla luce del sole; al pari dell’ultima avvenuta invece di notte, alla livida illuminazione dei cosiddetti bengala. Poche ore prima della liberazione. Fu l’estrema inutile ecatombe umana e di quel poco che stava ancora in piedi.

Cinquecento morti inumati subito in fretta, l’11 agosto e presumibilmente altrettanti sotto le innumerevoli abitazioni distrutte. C’è nelle pagine della Biografia di una città, il ricordo della tessera annonaria, indispensabile per l’acquisto degli alimentari di prima necessità. Il pane, definito di pessimo sapore, la carne, la farina, la pasta. Tutto razionato e comprato, facendo file interminabili. Se la passava un po’ meglio chi zappava gli orti di guerra e allevava animali da cortile. Il sale era introvabile. La via del sale andava da Terni a Civitavecchia in bicicletta. Si accendeva un fuoco sulla spiaggia e sopra un fusto metallico pieno d’acqua, portato a riva e lavato dal mare. Si aspettava pazientemente che l’acqua evaporasse e la “salsedine” rimasta diventava preziosa come l’oro.

Dice un testimone che, in piazza, erano andati in tanti bendisposti quando, attraverso la radio, la voce stentorea del duce annunciò (10 giugno ‘40) l’inizio della “tempesta” a fianco della Germania nazista. E i balilla partecipavano ai saggi ginnaci al canto di Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza. Una primavera che, malgrado fosse estate, divenne inverno e inferno devastante, a Terni, sotto le bombe: l’11 e il 28 di agosto e il 14 ottobre successivo (senza allarme). Poi, la città subì l’esodo imposto dalla paura e gran parte dei ternani dovette cercare riparo altrove.

Nella “Biografia di una città”, c’è chi ricorda che alla “Soc. Terni” operava il Capitano di disciplina e vigeva la militarizzazione del personale. Da osservare rigorosamente “l’orario di entrata in fabbrica al suono della sirena”. Il ritardo ripetuto considerato un sabotaggio disfattista della produzione bellica. I cancelli si chiudevano automaticamente e chi rimaneva fuori finiva nell’elenco delle guardie. Gli sfollati, ogni mattina, tornavano a Terni per lavoro, subendo il rischio dei mitragliamenti. Fu colpito gravemente pure l’ospedale e per i tanti feriti, toccò allestirne uno di fortuna. Molte le bombe a danno della ferrovia, dei Ponti di Rocca S. Zenone e di Giuncano. Altro testimone afferma che “cadde la bomba di fronte all’ingresso di un rifugio e fece un macello”.

A proposito di ricoveri antiaerei, sta scritto che all’Acciaieria si praticava una distinzione classista: “esistevano ricoveri per impiegati ed altri per operai”. Ulteriore memoria: Terni non s’era preparata ai bombardamenti e addirittura, non pochi persero la vita attardandosi nel raggiungere il luogo di protezione, mentre, per gli occupati in fabbrica, il ripetuto suono d’allarme era diventato un momento di riposo. Un operaio: “Quel giorno (11 agosto, n.d.a.) ce l’eravamo presa comoda come sempre. Usciti dal reparto, non stavamo neppure a metà strada, molta gente fuori, cominciarono a cadere le bombe. Ci ritrovammo dispersi un po’ dovunque”.

Fino ai bombardamenti – afferma l’allora Direttore dell’Acciaieria – si lavorava dalla mattina alla sera, poi s’è fermata l’attività. Non funzionava la luce, né l’acqua. In una officina, con tutte le macchine funzionanti, era volato via il tetto. La fabbrica fuori servizio”. Riportarono danni pure la Fabbrica d’Armi, le Officine Bosco, lo Iutificio Centurini. Ma il peggio, per le aziende, doveva ancora venire. E venne quando i tedeschi cominciarono a depredare gli impianti e, al momento della ritirata, fecero saltare in aria le centrali elettriche. Sopra un foglio, in lingua tedesca, alcuni lavoratori scrissero: “Non ci rovinate le nostre fatiche, non ci levate il pane, non sfasciate gli stabilimenti”. Non ebbe l’effetto sperato. Dopo la prima incursione, arrivò a Terni Re Vittorio Emanuele III, accompagnato dalla Regina Margherita, ma non furono fraternamente accolti. E allora, altro testimone sostiene che “dovettero prendere la macchina e scappare via subito”.

A proposito del biblico esodo dalla città sconvolta, qualcuno lo ha raccontato così: “Si decise di andar lontano il più possibile. Una massa di gente verso la montagna. Da mangiare non ci stava. Per alcuni giorni, abbiamo mangiato un maiale fatto a pezzi. Senza forchette, con dei pezzetti di legno. La notte si dormiva, per terra, dentro la galleria del treno”.

Nel mezzo di tante notizie severe, una faceta ne ho trovata. Riguarda una famiglia di Papigno, il borgo, da inizio secolo, politicamente rosso. Si legge: “Sono l’ultimo di sette figli. E’ importante chiamarli tutti”. Lui compreso. Sono (forse non per caso) Avanti, (il) Vero, Ideale, (e il) Libero, Pensiero, (del) Ribelle, Comunardo. In verità, anche una figlia c’era: Veraspiritanova. Durante il fascio quel Ribelle sapeva tanto di antagonista. All’anagrafe, lo mutarono in Renzo.

Il Memoriale del funereo risultato dei tanti bombardamenti è la gigante lastra di ferro addossata alla Chiesa di S. Francesco. Ci sono scolpite più di mille vittime civili, donne, vecchi, bambini, intere famiglie massacrate senza condanna. Perché, se in tempo di pace, sopprimi una persona, ti danno l’ergastolo; se, in tempo di guerra, ne ammazzi dieci, ti danno una medaglia; se ne uccidi cento sei un eroe. Di sicuro aveva ragione Thomas Hobbes: Homo homini lupus!

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