Mi insegnò tutto il sapere elementare quando era il gallo a suonare la sveglia
di Adriano Marinensi
Ho raccontato, molto tempo addietro, l’esperienza che feci quando ero nato da poco, sopra quello sperduto colle di Serra Brunamonti, dalle parti di Gubbio, in mezzo all’Umbria verde e ad una realtà che sapeva solo di agricoltura. Vennero poi, per me, gli anni delle scuole elementari e la pratica di vita si spostò a Penna in Teverina, un rilevante centro storico, posto tra Amelia ed Orte, dove lo stato sociale era diverso da Serra, però di notevole somiglianza.
Stessa economia monoreddito, a Serra e a Penna, fondata sul lavoro dei campi, con gli anni del contadino calcolati dalle stagioni, i giorni dalle albe, dai tramonti e dall’orologio posto sopra l’arco d’ingresso alla parte vetusta del paese. Che, in fondo alla doppia fila ininterrotta delle case antiche, scruta il panorama della ampia Valle del Tevere, in lontananza.
Quei ricordi della fanciullezza mi son rimasti in mente quasi fossero le pagine di un libro appena letto. Era il tempo ancora non rattristato dalle miserie e dalle paure della guerra. Della guerra, quando fui “alla Penna”, ricordo soltanto il tracotante assalto verbale (la notizia funesta dell’entrata nel conflitto) di Mussolini, diffuso dall’unico apparecchio radio esistente (in casa del maestro di scuola), posto sopra al poggiolo che affacciava sulla piazza del paese.
Mentre il despota si specchiava sulla folla oceanica. A parer suo, l’ora segnata dal destino batteva sul cielo della nostra Patria; l’ora delle decisioni irrevocabili. Alla fine l’invito altisonante: “Popolo italiano corri alle armi, dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore”. E il popolo, sottomesso al regime e sottostante il verone, che prorompeva in conati d’orgasmo: Duce, Duce, Duce! Alla fine, ci ritrovammo con tanti giovani morti ovunque e dei dispersi neppure i corpi furono resi. Colpevoli pure gli applausi di quel 10 di giugno 1940.
A Penna in Teverina, o si era piccolo coltivatore diretto o mezzadro, cioè lo zappaterra delle proprietà di un paio di signorotti blasonati. Le massaie, a quel tempo, aggettivate rurali dal regime, timorate di Dio, presenti alla messa ed alla confessione, le domeniche e le altre feste comandate. Parroco di Penna era il classico prete di campagna, alla don Abbondio, bonario, amabile e silente, dedito, con tanto amore, a pascolare il suo gregge e alla cura dei riti religiosi. Tra i riti primeggiava la Processione del Corpus Domini, che sfilava lungo le vie, ai lati di una infiorata fatta con i petali dei papaveri e della ginestra.
Di rilievo sociale pure il maestro (e la maestra) e gli esponenti, pressoché invisibili, che vantavano un quarto di nobiltà. All’epoca, in paesi più grandi, avevano riguardo pure il segretario del fascio, il farmacista, il medico condotto. A Penna non c’era nessuno di costoro. In uniforme c’eravamo soltanto alcuni di noi scolari, abbigliati di nero, la fascia bianca a croce sul petto, tenuta tesa da una sorta di spillone raffigurante la M maiuscola di Mussolini, il berretto con la nappa penzolante.
A prevalere era la quiete. Tutt’al più lo strofinio delle ruote dei carri agricoli e nessun motore, salvo quello del vecchio postale, che arrancava sbuffando. I carri lasciavano, con la pioggia, sulla strada sterrata, le rotaie: ci finì dentro l’anteriore della mia bicicletta e ruzzolai per terra. La vendemmia, una cerimonia di profumi: “E per le vie del borgo, al ribollir dei tini, va l’aspro odor dei vini gli animi a rallegrar”. Il torchio dei venacci rimandava il suo metallico concerto: tic, tac, tic, tac.
L’inverno era freddo anche dentro le rustiche dimore, violentate dalla tramontana che spifferava attraverso gli usci e le finestre a imperfetta tenuta. Ed a malapena riscaldate le dimore dal camino nero e fumoso. Ho ricordo di un allevamento di bachi da seta, gli industriosi filugelli, alimentati con le foglie del gelso. Mangiavano e mangiavano, poi, ad un certo punto della loro breve vita, salivano sulle fraschette e, muovendo il capo torno, torno, tessevano il prezioso bozzolo.
La sveglia, in campagna, la suonava il gallo, pollastro mattiniero e il crepuscolo segnava la fine della giornata di lavoro. Che comprendeva tante incombenze, capaci di farti apparire vecchio anzitempo, la pelle aggrinzita dalle intemperie. La terra, non di rado, mostrava ingratitudine verso le cure del bifolco. La natura, con la grandine, le gelate, la malefica asciutta, non era da meno. Così i raccolti si facevano magri, ma si rendeva ugualmente grazie a Dio.
In media ogni quindici giorni s’aveva da approntare il forno per il pane quotidiano messo nottetempo a lievitare nella madia di legno, con sopra il segno di croce. Alimento fondamentale il pane, per le famiglie contadine assai numerose e composte da almeno tre generazioni in pacifica convivenza. Quasi sempre “moglie e buoi dei paesi tuoi”. Ogni matrimonio una festa sull’aia, il pranzo a casa dello sposo e la cena dalla sposa. Il ballo al ritmo dell’organetto.
Il futuro somigliava tal quale al passato. Prevaleva ancora l’analfabetismo negli anziani e il titolo di studio dei giovani era la classe quinta della scuola primaria. Gli anziani senza pensione che, durante i primi tepori della primavera, li trovavi al sole, seduti e allineati sopra il sedile di pietra. Ricordo un vecchio che sorrideva triste, con le gengive: la dentiera la usava soltanto nelle occasioni ricordevoli. Scrivo di quella società civile, delle sue connotazioni che paiono appartenere ad un’epoca assai remota e svantaggiata; rifletto sulle usanze, sul tenore di vita, sull’esistenza priva d’ogni tecnologia. Tutto sembra in arretrato con l’evoluzione culturale. Penso alla vita di borgo di allora e, per una buona parte, non la rimpiango.
Poi però, mi affaccio sulla città di oggi – Terni, ad esempio – e vedo il traffico caotico, sento mille clamori, respiro aria inquinata; mi contristano le cupidigie, gli egoismi, la rincorsa all’avere (l’essere interessa sempre meno); per i giovani le tossicodipendenze, per i vecchi le solitudini. I cibi di oggi, te li raccomando! Vedi il pesce catturato da giorni, con gli occhi truccati, per sembrare pescato di fresco. Il confronto mi interroga e chiede: ha fatto il progresso la felicità dell’uomo?