I segni delle tradizioni sociali cancellati dalle frenesie della modernità
di Adriano Marinensi
Siamo in tempo di vacanze ed allora pure la mia piccola penna reclama riposo. Al momento, si è stancata di scrivere (la porto qualche settimana al mare). Soprattutto sente il dovere di dare tregua ai miei 4 o 5 lettori. Allora, mi sono messo, come altra volta, a sfruculiare nell’archivio ed è riemerso un “pezzo” datato una decina d’anni addietro che credo possa essere riletto quando la noia estiva imperversa sotto l’ombrellone. E’ leggero e parla di tradizioni domestiche tornatemi in mente per richiamo della senilità. Abitudini umane e sociali in vigore quando fui di primo pelo, intrise ancora di qualche afflato schietto e condiviso. Un vissuto poco somigliante a quello di oggi, le solidarietà di paese difformi dalle solitudini di condominio degli attuali agglomerati urbani. Nel paragone ci sono i ritmi lenti di allora, contrapposti alle frenesie “correnti”.
Ma, torniamo alla senilità ed alle consuetudini domestiche,nella riscrittura di alcuni brani di quell’argomentazione remota. Diceva: Sarà colpa della senilità e di Ippolito Nievo, però talvolta il lontano passato resuscita nella memoria e si materializza in vagabonde peregrinazioni di pensiero. Il vivere semplice di allora, diverso dall’attuale ingarbugliato come una mangrovia. Sarà stato sicuro meno avanzato, poco dinamico, affatto polivalente, però gli affetti genuini, il silenzio una virtù, la quotidianità più composta. Ci penso e una sequela di immagini, di quadri familiari s’affollano e fanno da richiamo. Dunque, qualche scena di vita, colta alla rinfusa, per esemplificare.
Mi compare la dimora dei nonni materni, “l’ammattonato sconnesso della grande cucina” (così il Verga di Nedda) e il tetto antico, qua e là gocciolante, sorretto dai travi di legno. Quell’ambiente della casa (la cucina, appunto) era il centro motore d’ogni attività familiare, il camino largo quanto un armadio, la catena nera di fuliggine a sostenere il paiolo della polenta, poi servita collegialmente sulla spianatoia di legno. Durante la stagione fredda faceva da focolare, unica fonte di calore. Per noi bambini, che gli sedevamo di fronte, persino un piacevole passatempo: lo stuzzicare la legna accesa e le sue braci, suscitando scoppiettanti scintille. Dopo cena, diventava la TV di oggi; tutti attorno, però parlanti, non muti e ascoltatori passivi, spesso di misere banalità.
Il ceppo di Natale, bruciato in quel camino, era scelto tra le più grosse potature dell’uliveto. E lui faceva il suo dovere dalla notte della Venuta sin verso la metà delle festività di fine anno. Il digiuno della Vigilia e la Messa di Mezzanotte, immancabili segni della devozione, ivi compreso il suffragio della prece per gli avi defunti, al cospetto delle loro scolorite immagini, rischiarate dal lumino ad olio sempre acceso, e allineate sopra il piano della credenza.
Il Presepio l’ho conosciuto in casa di una zia materna. Premurosa era lei ed accogliente l’abitazione. A volerla descrivere con un linguaggio da inserzione commerciale, si potrebbe scrivere: Appartamento di notevole metratura, cucina abitabile con camino, salone, studio, tre camere, bagno fornito dei sanitari, compresa la vasca, terrazzi sui due lati, cantina e orto sottostanti. Quasi un lusso esagerato in un paese degli anni ’30 e ’40 del ‘900. Il Presepio veniva allestito dentro un caminetto che non aveva mai conosciuto fiamme di fuoco. La rappresentazione della Natività in modo rustico: Le piccole statuine colorate, il muschio sottratto al bosco, la farina ad imbiancare il paesaggio, il frammento di specchio che imitava il laghetto con le papere.
Nel salone, l’immancabile pranzo di Capodanno, con il Parroco tra gli invitati. In tavola i “cappelletti” cotti nel brodo del pollastro, privato dei virili attributi (il cappone) per non farlo correre appresso alle galline e dedicarsi – da eunuco – solamente all’ingrasso. Frugale l’economia degli avi miei: nessun pensionato! Il campicello e il pollaio fonti primarie di sostentamento. Istruzione massima, la scuola primaria. Si, certo, ghirba poco decorata, ma decorosa.
In dicembre, il rito, crudelmente profano, dello scannamento del maiale: per com’era eseguito, proprio una maialata. Il suinetto comprato in fiera e allevato nel fetente porcile, il grado più basso della scala riferita agli alloggi animaleschi. Ucciso infine e fatto a pezzi, dal muso alla coda. Le pacche di lardo messe in salatura insieme ai prosciutti, i rosari di salsicce e mazzafegate, penzoloni attorno ai fili tesi tra una parete e l’altra, lo strutto dentro la vescica del porco. Il sangue, raccolto fino all’ultimo spasimo, mescolato con miele e pinoli, serviva per confezionare i sanguinacci. Ci voleva un buon palato per mangiare la padellaccia, un inverecondo miscuglio di residui dal pesante effetto collaterale. Un insulto per l’apparato digerente.
Parimenti improntate ai canoni del buon cristiano, le abitudini della Pasqua, con il rispetto degli adempimenti durante la Settimana Santa: la Via Crucis in Chiesa, la visita ai Sepolcri, l’ascolto delle campane “legate” la sera del giovedì e a stormeggiare la domenica della Resurrezione. Le pizze dolci, fatte in casa, cotte nel forno comunitario, adornate con i confettini colorati. A giugno, il 24, la ricorrenza di S. Giovanni, era d’obbligo lavarsi il viso con l’acqua profumata da erbe aromatiche, raccolte nei campi. Altro segno di fede, i fuochi dell’Ascensione.
Sto scrivendo del tempo durante il quale “vivevano” ancora mestieri oggi pressoché estinti- Per esempio, il calzolaio. Le scarpe da tennis ne hanno fatto strage; ancor prima è scomparso il lustrascarpe, lo shoeshine (sciusciain) americanizzato. Provaci un po’ a farle lucide le scarpe da tennis che imperversano tra i giovani oppure a risuolarle. Impossibile! Quindi, ciabattino addio. E dire che, appena nel corso della II guerra mondiale (io c’ero) per non consumare le suole di cuoio, ci si inchiodavano sopra le bollette a sette botte, cosiddette perché ci volevano sette martellate ognuna per un lavoro ben fatto.
La società di allora, almeno quella ispirata alla civiltà contadina, aveva una struttura ed una organizzazione sobria, se volete elementare, ma le polveri sottili non “sforavano” mai. La modernità che non tollera più le regole di tale modello di lunario sbarcato a fatica, ne ha rinnegato il sapore umano connesso alla comunione dei sentimenti, alla collaborazione operosa. Sono subentrate le grandi città ipermediatiche, le comunità dispersive, il trionfo del cemento. Che siccome è “armato”, ti tocca subire la prepotenza. Quella umanità è oggi relegata, in parte, nei piccoli borghi dei quali è ricco il territorio dell’Umbria. La speranza è che, prima o poi, qualche brandello dell’esistenza cancellata torni a “rinverdire” la quotidianità urbana. E il ricordo di tale consorzio indulgente non sia soltanto la traccia di un (banale) racconto come questo.