10 luglio ’43, lo sbarco in Sicilia; 25 luglio ’43, il Gran Consiglio
di Adriano Marinensi
In mezzo alle due date appena citate nel sottotitolo, ci fu il drammatico 19 luglio, il giorno del primo bombardamento di Roma, ritenuta sacra e inviolabile. Mussolini non era a Palazzo Venezia, ma a Feltre di Belluno “convocato” da Hitler che gli fece la solita sparata di contestazioni per lo scadente esito della guerra. Incontro interrotto per l’arrivo della ferale notizia: Roma a fuoco.
Dunque, la capitale d’Italia violata con un bilancio di circa 3.000 morti, migliaia di case distrutte nei quartieri di S. Lorenzo, Prenestino e danni alla Stazione Termini e al Verano. Lo choc fu tremendo e provocò forti ripercussioni popolari e politiche. Tanto sconcerto si diffuse nelle gerarchie dello Stato, della Monarchia e dello stesso regime. L’evento tragico e inatteso si aggiunse all’assalto in Sicilia, grave minaccia per le sorti della guerra e dell’Italia.
Nell’alba placida del 10 luglio, di fronte al litorale tra Gela e Siracusa, si presentò una forza militare da sbarco mai vista prima (l’altra verrà allestita l’anno dopo – 6 giugno ‘44 – in Normandia). Furono schierate 2.590 navi, delle quali 280 da guerra, con un potente supporto aereo e due armate, una americana al comando del generale George Patton ed una britannica con a capo Bernard Montgomery. “Li fermeremo sul bagnasciuga” aveva pronosticato Mussolini (scambiando il bagnasciuga per la battigia) e invece l’invasione della Sicilia fu impegno breve. L’obiettivo: Aprire un fronte nell’Europa meridionale e conquistare l’Italia.
Quella violazione dei confini mise in subbuglio le alte sfere della Monarchia e dell’Esercito. Si ebbe netta la sensazione che il conflitto stava declinando a danno dell’Asse. Perfino Vittorio Emanuele III – che in passato aveva consentito al duce di decidere quasi autonomamente le sorti del nostro Paese – pensò la misura fosse colma. Occorreva tutelare anche la corona e la dinastia sabauda dai catastrofici sogni di gloria di Mussolini. Il quale aveva detto, all’inizio della guerra, che gli servivano un migliaio di morti per sedersi al tavolo dei vincitori. E invece la gioventù italiana l’aveva mandata a morire, senza causa, in molti fronti di combattimento.
A questo punto sarebbe irriguardoso, per quei “martiri” scomparsi in guerra, ignorare almeno il sacrificio dell’ARMIR, il contingente quasi sterminato in Unione sovietica. ARMIR sta per Armata Militare Italiana in Russia e divenne operativa nel luglio 1942, malgrado la scarsa “simpatia” espressa da Hitler: Subì la ritirata e la decimazione a causa del gelo, dell’insufficiente dotazione di mezzi ed equipaggiamento, durante il gennaio 1943. In totale, lasciammo sul terreno – nel corso dell’Operazione Barbarossa – circa 90.000 caduti, oltre ad un gran numero di feriti, congelati, dispersi e prigionieri. Un calvario. Ci vollero 200 tradotte per trasportare i nostri soldati su quel fronte; ne bastarono meno di 20 per riportare a casa i superstiti.
Venne il 25 luglio 1943, quando la storia d’Italia fece uno strategico deragliamento. Serviva al Sovrano un documento al quale agganciare la decisione di sostituire il Capo del Governo, senza correre il rischio d’essere accusato di operare un colpo di stato. Gli venne in aiuto la riunione del Gran Consiglio del fascismo. Era un organismo composto dai massimi gerarchi del regime. Alcuni autorevoli membri ne chiesero la convocazione.
Prima dietro le quinte, poi esplicitamente, prese corpo un ordine del giorno da sottoporre al voto dell’assemblea. Mussolini venne messo a conoscenza del testo che adombrava la sua uscita di scena e in pratica anche la chiusura dell’esperienza fascista. Gli storici, a quel punto, si sono posti un interrogativo: Perché il duce non ebbe una delle sue solite grintose reazioni? Aveva ancora in mano da giocare contro i ribelli la carta della Milizia fascista, l’agguerrito esercito che gli era fideisticamente fedele. Però, non lo fece. Forse cosciente delle conseguenze, in termini di scontro militare e istituzionale. Forse si fidava ancora del suo carisma e quindi preferì affrontare il confronto, nel convincimento di uscire indenne da quella che ormai appariva una congiura contro Cesare. Ed una definitiva resa dei conti.
Chi ha studiato gli atti dell’adunanza, riferisce dello scontro drammatico, tutti essendo consapevoli delle conseguenze, anche personali, che sarebbero potute derivare dall’approvazione del documento elaborato da Dino Grandi, ch’era il Presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni.
Il testo iniziava nel modo usuale alla retorica di regime: “Il Gran Consiglio, riunitosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzitutto il suo pensiero agli eroici combattenti…” Quando però si giunse al cuore della questione, ci fu scritto: “Invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell’aria …”
In tempo di guerra, chi assume il comando delle Forze armate, diventa anche titolare del potere politico e del Governo della Nazione. E, analizzando il testo, si evince che qualcuno c’era che, con la sua condotta, aveva attentato “l’onore e la salvezza della Patria”. Dunque, una mozione di sfiducia palese al “comandante” da parte dei suoi “colonnelli”. Infatti l’esito della votazione fu 19 favorevoli, 8 contrari, 1 astenuto. Il Gran Consiglio approva. Persino il genero Ciano e i “quadrunviri” della marcia De Bono e De Vecchi). Nessun golpe antifascista nell’aula del Mappamondo a Palazzo Venezia: la dittatura implosa per volontà e scomunica interna.
Erano passate da poco le due di notte e un Mussolini accigliato e attonito disse “La seduta è tolta”. In quel mese, il duce aveva 60 anni (nato a Predappio, il 28 luglio 1883) e soffriva di un perenne mal di stomaco. I suoi gerarchi avevano destituito lui e il suo regime. Ci fu poi la cruenta appendice della Repubblica di Salò e della guerra civile, ma quello fu soltanto un velenoso rigurgito della storia nazionale fascista. Dunque, lo sbarco degli Alleati in Sicilia, la violenza delle bombe su Roma, il voto del Gran Consiglio, in due sole settimane, misero in mora 20 anni di sovranità assoluta. Per la precisione, 20 anni, 8 mesi e 28 giorni.