Dopo un quinquennio di studi in Italia, è giusto che lo straniero divenga cittadino italiano. La “battaglia” di Enrico Letta
di Bruno Di Pilla
Qualunque sia l’esito delle prossime elezioni, lo “ius scholae” è un doveroso atto di civiltà e progresso, come da tempo sostiene il democratico Enrico Letta. Non soltanto nei confronti delle centinaia di migliaia di giovani nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri, ma anche nel nostro stesso interesse. Per la prima volta, infatti, la popolazione è scesa al di sotto della proverbiale soglia dei 60 milioni, con le morti annuali che superano le nascite.
I motivi? Culle semivuote per la crescente sfiducia dei nostri ragazzi nella famiglia tradizionale, decessi in aumento per malattie e ragioni anagrafiche, stabili occupazioni quasi sempre introvabili in patria, salari già magri erosi dalla galoppante inflazione. Inutile negare che il nostro sia un Paese obbligato ad invertire in fretta il trend demografico, essendo gli anziani sempre più numerosi.
Al di là dell’immediato tornaconto e riequilibrio numerico, è una questione di giustizia sociale (e di ordine pubblico) il conferimento della cittadinanza a chi frequenta con profitto i nostri istituti scolastici per almeno cinque anni consecutivi. D’altronde, un quinquennio di studi accurati e seguiti con perseveranza è più che sufficiente per far sì che i minori immigrati si integrino con i compagni di classe ed apprendano la lingua e la cultura di base italiane, oltre al modus agendi del luogo in cui vivono. Molti di questi ragazzi, tra l’altro, sono già stabilmente inseriti in gruppi sportivi, circoli culturali, associazioni religiose e di volontariato, né hanno problemi nell’interagire con i nostri connazionali.
Che senso ha l’attuale legislazione del 1992 esclusivamente basata sullo ius sanguinis e che impone allo straniero il raggiungimento della maggiore età, fatti salvi i rarissimi casi di apolidia, morte o irreperibilità dei genitori? Archiviata l’ipotesi dello ius soli temperato, in vigore in civilissimi Stati (USA, Canada, Francia, Spagna, Germania), il rifiuto del più articolato ius culturae sarebbe incomprensibile per il nostro multietnico ed accogliente Paese. Anche perché fu proprio il progenitore Caracalla, con la celebre Constitutio Antoniniana del 212 d.C., a concedere la cittadinanza “iure loci” a chiunque fosse nato, o comunque avesse scelto di vivere, nelle province dell’Impero Romano. Rinnegheremmo due millenni di storia, se non legalizzassimo almeno lo “ius scholae”.