Il peccato originale del candidato Silvio al Colle
di Adriano Marinensi
Si può pensare ragionevolmente che un regime (nella fattispecie fascista), avente la responsabilità di governare un Paese, per di più tra due guerre (Etiopia 1935 – 36 e II mondiale 1940 – 45) possa impegnarsi in una disputa, quasi ideologica, di linguaggio popolare ? Ragionevolmente no, ma storicamente si. Accadde nel tempo degli ordini, pure quelli “fanciulleschi” e impossibili da non discutere. Credere, ubbidire e combattere. Il 15 febbraio 1938, da Roma, pare dallo stesso ufficio del grande capo, fu diramata una disposizione, immediatamente eseguibile, a tutti gli organi periferici del partito. Ordinava l’abolizione immediata del pronome personale LEI, ritenuto femmineo e esterofilo, sostituito, nel parlare comune degli italiani, dal più maschio VOI. L’uso del TU restava tra camerati di pari lignaggio.
Fu uno dei numerosi atti fondamentali (?) del regime della parola, una sorta di autarchia anche nel discorre, imposto per emancipare il popolo da tutto ciò che aveva sapore di scarsa virilità. Avevamo iniziato con “Io me ne frego” e l’addestramento successivo alla scuola, alla radio, alla stampa. Poi il diluvio di motti attribuiti allo stesso duce. Per esempio: Vincere e vinceremo, E’ l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende, Fermarsi significa retrocedere, Quando manca il consenso c’è la forza, Noi tireremo diritto ed altre “magniloquenze” di pari teatralità.
Durante una delle sue esibizioni oratorie dal balcone, Mussolini disse: “Abbiamo dato dei poderosi cazzotti a questa borghesia italiana. Il primo è stato il passo romano di parata, il secondo l’abolizione del LEI, il terzo le leggi razziali”. L’abominio delle leggi sulla tutela della razza, lo ha dichiarato la storia. Il passo romano attiene all’aspetto grottesco delle esibizioni militaresche. Il LEI soppresso, una castroneria. Addirittura, in una mostra sull’Antilei, organizzata a Torino dal partito, stava scritto: “Ebrei, borghesi e prostitute, sono loro a voler usare il LEI”. All’epoca, la campagna contro l’odiato monosillabo, si prese anche encomi. Tommaso Marinetti, quello del futurismo, affermò (i grandi uomini non dicono, affermano, solennizzano): “Il TU e il VOI mi fanno pensare a canne di mitragliatrici; il LEI ad un molle divano”. Perché le mollezze dei sofà prefiguravano pigrizie inconcepibili. Una trivialità.
Ancora alla mostra torinese, cartelli affissi avvertivano: “LEI vecchio rudere, servo e lenone, non è più questa la tua stagione”. Ci fu persino chi pensava il LEI fosse lo strumento linguistico di quelli che hanno qualcosa da nascondere, il ponticello ideala dell’ipocrisia. LEI è colui che non ti guarda in faccia. Di qui la scelta gagliarda del VOI, così romanamente importante e quasi avventuroso. Ed anche il riconoscimento di grande stima verso l’interlocutore, considerato, appunto con il VOI, persona plurale, di augusta dimensione. Ancora un manifesto alla fascistissima mostra Antilei: “A chi ti da del LEI ancora adesso, non dare il VOI e il TU, dagli del fesso”. Qualche altro entusiasta a sostenere: “Il VOI è italiano per la pelle, il TU veramente originale, d’una intimità inconfondibile”. In verità, la connotazione del cameratismo solidale era all’ apparenza e l’antagonismo di potere nascosto, dietro le ambizioni personali. A volte persino di paese, di borgata.
Dunque, l’offensiva contro il LEI poteva dirsi stravinta. Non più inchini, levate di cappello dopo il LEI, non più espressioni sdolcinate da salotto. Evviva il VOI, termine rude e gagliardo. Si gagliardo! Anche perché gagliardetto, lo stendardo tanto sventolato dal fascio, può considerarsi derivato proprio da gagliardia, vigore, audacia, forza e tanti altre espressioni ampiamente usate per magnificare l’ardente impeto soldatesco del regime. Con il sole che sorgeva, libero e giocondo, a domar cavalli sui colli fatali di Roma. Infine giunse “l’ora delle decisioni irrevocabili” (10 giugno 1940) e finimmo all’inferno.
Ora il solito argomento in totale fuorigioco. Perché, io continuo a sostenere sia questo nostro Paese, uno strano Paese. Riprendiamo l’esempio di nonno Silvio, candidato dalla variegata destra italiana, al Quirinale. La politica in coro incornicia il Presidente ideale in un quadro dipinto di requisiti essenziali: specchiato decoro civile, moralità cristallina, equilibrio e rigoglio intellettuale etc. etc. Soprattutto uomo integerrimo, si predilige.

A parte la senilità che ha allontanato nonno Silvio dalla stagione degli amori, c’è anche il precario stato di salute che lo fa ammalare ogniqualvolta lo chiamano in Tribunale (si tratta di COVID giudiziario). Se poi ti viene l’uzzolo di andare al casellario, come fanno gli avvocati, dello specchiato decoro non trovi manco lo specchio.
Semmai, trovi una ridda di notizie di reato ascritte, tra le quali spicca la condanna a 4 anni, a carico del candidato (frode fiscale), dei quali tre cancellati grazie al condono ed uno scontato ai servizi sociali, giocando a scopone (oddio! Semmai a briscola) con i pari età dell’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Sempre il casellario, che parla la lingua del C. P. racconta di una lunga sfilza di imputazioni, la gran parte delle quali cadute per prescrizione (la “coperta” cancella la pena non il peccato).
In aggiunta, esiste ancora qualche cosuccia da discutere e giudicare. Cosicché, mentre i sodali di nonno Silvio vogliono conferirgli il mandato settennale al Colle, qualcun altro pensa a differente tipo di mandato. Caro Giacomo (Leopardi), recitiamolo insieme quel tuo verso che quasi implora: Italia mia, vedo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e l’erma torri degli avi nostri. Ma, la gloria non vedo.