Eventi del lontano passato narrati con i verbi al presente
di AMAR
Sono stato inviato (in modo virtuale, s’intende) da questo Quotidiano dell’Umbria, in Puglia, a Barletta, per assistere e raccontare un evento che sa di storia e anche un po’ di leggenda. Volevo andare in aereo oppure in treno. Mi sono recato in aeroporto e non c’era l’aeroporto; alla stazione e non c’era la ferrovia. Non li ho trovati, perché i fatti da narrare – con i verbi al presente – risalgono al 1503 e si tratta nientemeno della famosa Disfida di Barletta.
Ad ogni modo, sono arrivato nella città pugliese il giorno precedente il certame d’arme, in modo da acquisire qualche notizia interessante. Mi hanno detto che Barletta, malgrado fosse nel sud, sta sotto la giurisdizione di Venezia. In passato , diverse dominazioni si sono succedute. Nel periodo altomedievale fu distrutta dalle truppe ostrogote di Totila; quindi arrivarono i normanni, gli svevi, gli angioini e gli aragonesi.
Insomma, un andirivieni di gente di pochi scrupoli. In questo momento è in atto la Guerra d’Italia tra i regnanti francesi e spagnoli (il tempo del detto partenopeo: Francia o Spagna, basta che se magna). Tra le faccende curiose, mi dicono di una controversia tra i due coronati contendenti, sorta per questioni territoriali legate alla transumanza tra l’Abruzzo montuoso (Francia) e la Capitanata (Spagna) per via di una tassa francese denominata dogana delle pecore.
Comunque, domani 13 febbraio 1503, è in programma uno scontro armato tra 13 cavalieri italiani e altrettanti francesi, che si sono sfidati a seguito di insultanti giudizi espressi nei confronti dei nostri connazionali da parte di un arrogante caporione d’Oltralpe, chiamato Monsieur Guy de La Motte. Il quale – circa un mese fa – ha pronunciato le frasi ingiuriose, nella cosiddetta Cantina della Disfida, durante un banchetto, organizzato dagli spagnoli, presenti numerosi francesi. Sono volate parole grosse e pure i guanti di sfida. Mi informano che la nostra cavalleria sarà guidata da un valoroso di nome Ettore Fieramosca, nato a Capua da padre barone e madre nobildonna. Un pezzo grosso e importante punto di riferimento per l’intera compagine in corazza azzurra.
E’ al mattino che inizia la resa dei conti. Nel campo della giostra, si allineano contrapposti i due schieramenti. S’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo (come ne Il Conte di Carmagnola di Manzoni). Il contorno assai numeroso dei tifosi delle due squadre, con tamburi e raganelle.Principiano il frastuono d’armi e, dagli spalti, il furor di popolo: “Tagliagli un braccio, stroncagli la gamba, la spada nella panza!” Il primo tempo si gioca a cavallo, lancia in resta, ma il punteggio rimane immutato: qualche ferito e basta, per le blande azioni d’attacco.
La “ripresa” viene disputata a piedi ed a colpi di ascia e spada, con maggiore grinta aggressiva da entrambe le parti. Botte da orbi. Si fa cimento soprattutto nella metà campo degli uomini di Guy de la Motte. Gli italiani appaiono prevalenti sul piano della classe armigera. Godono del vantaggio di battersi in casa, però è chiaro il migliore gioco di squadra, orchestrato magistralmente dal “capitano” Fieramosca. Sono gli azzurri ad aggiudicarsi la disfida ed è palese che la vittoria è andata ai migliori. Le parti si sono accordate che le armi dei vinti sarebbero passate ai vincitori e il riscatto, per ogni sconfitto, calcolato in 100 ducati. Un bel guiderdone per quei soldati di ventura.
Vengo a sapere che i francesi, spocchiosi come al solito e sicuri di vincere, non si sono portati appresso i soldi per riottenere la libertà. E quindi tradotti nelle carceri di Barletta. Nei giorni prossimi, sono previste adeguate celebrazioni per solennizzare (sportivamente) il successo e rendere il dovuto omaggio ai nostri valorosi. Inutile dire che Barletta è in giubilo: il gran pavese riempie di colori le vie. Festa e fiera, mentre due Re stranieri – Luigi XII di Francia e Ferdinando II d’Aragona – continuano a contendersi la signoria di buona parte d’Italia. A Barletta, ammirevole è il Castello Svevo, con il fossato attorno, oltre ad Eraclio, il Colosso di bronzo, un omone alto cinque metri. Questo è quanto i miei occhi hanno visto e la mia modesta penna ha saputo descrivere.
Per saperne di più si consiglia il romanzo storico di Massimo D’Azeglio intitolato Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta (1883) oppure l‘opera di Felice Mosca: Historia del combattimento de’ tredici italiani con altrettanti francesi, fatto in Puglia, tra Andria e Quarata (1721). E anche il film Ettore Fieramosca, diretto da Alessandro Blasetti (1938). Nota di avvertimento: E’ poco legato all’evento e molto patriottardo. D’altro canto, l’era di riferimento è quella fascista e Mussolini ha usato la Disfida per esaltare il valore della stirpe italica e l’intrepida gagliardia del regime. Fine.
La singolar ventura della piccola Cospaia
Adesso, udite, udite! Questa notizia l’ho trovata scorrendo le preziose pagine di HISTORY, che, nella testata, si autodefinisce Il mensile che va oltre la solita storia. La simpatica informazione ha per titolo: “Cospaia, una minirepubblica in territorio umbro”. Ve la regalo tal quale. Dice: Tutto iniziò a causa di una svista. Correva l’anno 1443 (dunque, poco prima della Disfida di Barletta) e Papa Eugenio IV decise di cedere il territorio di San Sepolcro alla Repubblica di Firenze. Nel tracciare i nuovi confini, sfuggì a tutti una piccola striscia di terreno che non venne inclusa nel trattato. L’errore a causa di una circostanza banale: Il torrente, scelto come linea di demarcazione, a sud, si chiamava RIO, tal quale all’omonimo corso d’acqua situato 500 metri a nord.
I papalini presero per buona la prima frontiera, i fiorentini la seconda. Così gli abitanti tra i due fiumiciattoli si trovarono, di punto in bianco, nella “terra di nessuno” e ne approfittarono per proclamarsi indipendenti. Poi, giurisprudenza alla mano, furono riconosciuti come tali, nel 1484. La Repubblica di Cospaia, dal nome del borgo eponimo (denominato), 250 anime distribuite su appena 330 ettari, aveva proprie magistrature e issava la sua bandiera, un campo nero e uno bianco, divisi dalla diagonale. Non pagava tasse, né dazi e, da zona franca, si diede alla lucrosa coltivazione del tabacco, tanto che, ancora oggi, alcune varietà si chiamano cospaia.
Dopo tre secoli e mezzo di indipendenza, ormai ridotta a ricettacolo di contrabbandieri, giunse per Cospaia l’ora della fine: il 26 giugno 1826, i 14 rappresentanti della Repubblica si sottomisero allo Stato della Chiesa, ricevendo come “risarcimento”, una moneta d’argento per abitante e l’autorizzazione a continuare la tabacchicoltura. Attualmente – conclude la nota di HISTORY – il paese di Cospaia è una frazione del Comune di San Giustino, in provincia di Perugia. Questa antica curiosità ho trovato e mi è parso simpatico farla conoscere agli umbri moderni.