Non si sa ancora se, per quel crimine, giustizia è stata fatta
di Adriano Marinensi
Dopo la sentenza pronunciata la settimana scorsa dalla corte d’Assise di Bologna, i condannati per la strage della stazione, sono diventati cinque. Oltre a Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, Gilberto Cavallini, la giustizia ha stabilito che quel lontano 2 agosto 1980, della banda criminale faceva parte anche Paolo Bellini, altro appartenente ai NAR neofascisti. L’attentato terroristico provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Alle 10,25 del mattino, come testimonia l’orologio sul muro, fermatosi al momento dello scoppio. Non la scena del delitto, ma un campo di battaglia: corpi straziati, feriti, macerie, l’inferno in un secondo.

Si era al tempo delle brigate rosse e nere, degli opposti estremismi, degli anni di piombo, dei Servizi segreti deviati, delle connivenze, dei depistaggi. E degli strateghi del terrore che operavano dietro le quinte. A costoro, che hanno recitato il ruolo più ignominioso della tragedia, la sentenza ha dedicato un capitolo incontestabile: Soggetto primario del disegno criminoso messo in atto a Bologna, il vertice della setta massonica Propaganda 2 (in sigla P2) di Licio Gelli. Costui è stato un ex sostenitore di Francisco Franco in Spagna ed ex repubblichino di Salò.Ai nati da mezzo secolo fa in avanti, va spiegato meglio il ritratto del venerabile maestro e il tentativo di sovvertire lo Stato democratico, operato dall’accozzaglia latente dietro alla P2. E come andarono i fatti.
Due magistrati stavano seguendo il filone di indagine legato ad una vicenda di sequestro e, per ragioni d’ufficio, come si dice, mandarono una equipe di Guardie di finanza a fare un salto, in collina, a Castiglion Fibocchi, dalle parti di Arezzo, nella sontuosa dimora (Villa Wanda) del suddetto venerabile, ma non troppo. Dentro un cassetto fu rinvenuto – forse per caso, forse no – uno strano elenco di nomi, bene ordinati, con data di nascita e qualifica accanto. Il primo pensiero: Si tratterà di amici del padrone di casa. Però, erano tanti nomi (per la storia, 962) e di estrazione autorevole. Sicuramente amici, ma anche amici degli amici. Uomini politici, pezzi grossi delle Forze armate, di Polizia, dell’alta finanza, del giornalismo e molto altro ancora. Massonicamente parlando, una loggia, segreta e coperta. A dirla tutta, il corpo estraneo di una associazione per delinquere, dal retrogusto anti istituzionale. I burattinai peggiori dei burattini.
Per fare cosa? Per creare un gruppo di potere in grado di manipolare qualunque situazione e orientare il governo del Paese. Se si potesse usare l’ironia, si potrebbe parlare di un vasto campo di papaveri, alti, alti, coltivato a modo, con fine poco nobile di ammainare la bandiera della democrazia. Quando si capì la ragione dell’elenco, successe un pandemonio. Un fuggi fuggi dalle responsabilità. Parve un nido di formiche al quale qualcuno aveva messo sopra un piede.
Il fatto è che, a quel tempo e dintorni, nell’acqua torbida, tra un assalto terroristico e l’altro, “nuotavano” pescecani d’alto bordo. Intriganti, di potenza appena al di sotto di Licio Gelli. Per esempio, Michele Sindona. Era costui un arrampicatore indefesso, siciliano di Patti, piduista e mafioso, in amicizia con la “famiglia Gambino” di New York. Ne combinò di cotte e di crude, tanto da meritarsi il pigiama a righe da ergastolano. Per sfuggire ai Tribunali, organizzò persino il finto rapimento di se stesso. E, al fine di renderlo credibile, si fece sparare, sotto anestesia, una pistolettata nella gamba. Mentre era recluso, gli offrirono un caffè corretto al cianuro e ci rimase stecchito. Portò nell’aldilà una caterva di segreti scomodi. Fu in affettuosa dimestichezza con il Cardinale Marcikus e accusato di complicità nei delitti di Calvi e Ambrosoli.
Eccoli, sulla ribalta, altri tre personaggi in cerca di autore. Paul Marcinkus, alto Prelato di Santa Romana Chiesa, nato, guarda il caso, come Al Capone, in un sobborgo di Chicago, fu Presidente – padrone dello IOR (Istituto per le Opere di Religione). Un traffichino di sette cotte, rimase invischiato nel crac del Banco Ambrosiano, riuscendo ad evitare l’arresto grazie al passaporto americano. Alcune caratteristiche non consone all’abito talare, lo resero famoso all’incontrario.
Ed ecco Roberto Calvi, banchiere d’assalto e abile scalatore dell’impero finanziario. Assunto nel 1947 al Banco Ambrosiano, nel 1965 ne divenne Presidente. Nientemeno! Manco a dirlo, iscritto anche lui alla P2, entrò presto nel “salotto buono” del mondo che conta e manovra. Con lo IOR intrecciò una fitta rete di società fantasma nei paradisi fiscali. A causa delle sue spericolate imprese, il Banco entrò in crisi profonda. Lui tentò di metterci una pezza, stringendo accordi con il boss Pippo Calò, cassiere dei corleonesi, e pure con i birbaccioni della banda della Magliana. Il 18 giugno 1982, lo trovarono appeso per il collo sotto il Ponte dei Frati neri del Tamigi. Aveva in tasca delle pietre, 15.000 dollari ed un passaporto intestato a Gian Roberto Calvini.
Attore di secondo livello (e vittima) è da ritenere Giorgio Ambrosoli, avvocato di buona fama. Lo nominarono Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, ormai sull’orlo del fallimento. Svolse il mandato con scrupolo e professionalità. Però in palese contrasto con i desideri di don Michele. Il quale, in perfetto stile di mafia, gli fece sparare, sotto casa, quattro revolverate. Il killer, scrissero i Giudici, venne retribuito con 115.000 dollari.
Dietro il proscenio, dove andò in onda la tragedia della stazione di Bologna (ore 10,25 del 2 agosto 1980, giova ribadirne la memoria) ed altri feroci atti di violenza, operarono una serie di sottoprodotti dello squadrismo criminale di quell’epoca buia. La magistratura ha celebrato una infinità di processi, comminando secoli di condanne. Però, i coni d’ombra sono rimasti ad oscurare un intricato tratto di storia che pesa ancora oggi sul nostro Paese. Legati pure alle gesta di Umberto Ortolani, Flavio Carboni, Francesco Pazienza e “faccendieri” di identica risma.
Torno in cronaca diretta giudiziaria. E’ della settimana passata anche la sentenza di primo grado che ha condannato otto rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri per l’azione di depistaggio e insabbiatura (una “cortina fumogena”, secondo l’accusa), riguardante il caso di Stefano Cucchi. Si tratta del giovane geometra di 31 anni, morto in ospedale, il 22 ottobre 2009, a seguito delle percosse subite dopo l’arresto. Per il suddetto reato la Cassazione ha pronunziato il suo verdetto a carico dei due autori materiali. C’era da valutare e sanzionare il comportamento di quanti si diedero da fare alacremente per occultare, a diverso titolo, la verità. Ora, in otto gli insabbiatori – dal signor generale, al colonnello, sino al luogotenente – dovranno spartirsi 21 anni e qualche mese di reclusione. Ci sono voluti due lustri abbondanti, una ridda atti processuali, di inchieste, di interventi della Cassazione. E non è ancora finita li. Nel solco della italica tradizione giudiziaria.