La rassegna di tradizioni e figure scomparse nel mondo contadino
di Adriano Marinensi
Avevo voglia di ritornare con la memoria al tempo di alcuni decenni orsono, per un breve viaggio nel mondo e nelle tradizioni che segnarono la vita in campagna dove vissi fanciullo. C’è un libro, scritto nel 1985, da Sandro Boccini, che racconta – con una prosa efficace e piacevole – di figure, lavori, costumi tipici di quel mondo contadino, oggi “inghiottito”, quasi tutto, dal modernismo urbanizzato. Nell’Umbria moderna, attorno alle pievi, ai castelli, nei piccoli borghi, tracce di costume sono rimaste e fanno da testimoni di una umanità che meriterebbe di sopravvivere.
Boccini ne fa il racconto, convinto che la cultura civile del passato fosse radice di sostegno della storia popolare e connaturata con l’essenza umana. Le tradizioni e i costumi servono per inanellare la catena delle generazioni, eliminando cesure e tenendo vivi il sentire dell’uomo, vicino alla sua natura. C’è, dentro l’immagine delle piccole comunità di una volta, un sentimento di armonia e di vicinanza smarrito nella dimensione dell’anonimato urbano. Certo, dal punto di vista tecnologico, vivemmo prima della preistoria, però certi afflati guidavano ancora lo stare insieme.
Per esempio, il Natale senza gli zampognari e il melodiare delle loro ciaramelle, sarebbe parso anomalo. Anche senza il Presepe in un angolo della casa, il ceppo grande nel camino, perché ogni dimora, pur modesta, un focolare aveva. Dal punto di vista del riscaldamento, faceva il possibile, però produceva molto più calore facondo allora che i silenzi dinnanzi al televisore ogg. In Chiesa, a mezzanotte, dopo l’allegra tombolata, il canto di fede “Tu scendi dalle stelle, o Re del Cielo”. In questo clima, resta il mio BUON NATALE! augurato fraternamente.
Sono andato a rileggerlo l’Abbecedario ed ho ritrovato alcuni aspetti remoti, ma autentici di una società organizzata su regole semplici e su valori autentici, come la condivisione dei sentimenti, la solidarietà sociale, la comunione delle opere. Nella buona e nella cattiva sorte. Spesso, nei campi, la sorte non era propizia. L’impegno duro, cosicché, quando l’industria ha avuto sviluppo, la certezza del salario ha spopolato i campi, favorito l’abbandono dei casolari che furono “contenitori” di economie domestiche e unità familiari promiscue.
Ed eccola allora Colomba che – scrive Boccini – “abitava una casa appartata, con una loggia, un tetto spiovente e un fontanile, dove si sciacquavano i panni anche d’inverno.” E’ una immagine quasi allegorica Colomba, “d’età indefinibile da 50 in su, che possedeva la grazia d’essere sempre disponibile verso gli altri”. La disponibilità, insieme al mutuo soccorso, stava infatti tra le doti naturali di quella società. Mezzo filone di pane, un pezzo di lardo (per la minestra di battuto), una candela: Colomba era pronta a darteli. Perché, secondo un proverbio del tempo, anche la regina ha bisogno della sua vicina. Possedeva poche cose, dentro una casa disadorna e “i passeri d’inverno – specifica Boccini – si azzardavano sin sul davanzale a beccar misericordiose molliche”. E aggiunge: “Teneva sempre la chiave sull’uscio e, se qualcuno bussava, non chiedeva: Chi è? Diceva semplicemente: Avanti!” Brava nel fare tante cose, Colomba era maestra nel fare il pane.
Come si ammanniva il pane in campagna? Boccini ce lo fa dire da Olga che “aveva iniziato la sera avanti il procedimento, seguendo l’antico itinerario appreso dalla nonna”. Quindi, il lievito inserito “in una montagnola di farina dove aveva circoscritto, con la mano raccolta a scodella, un cratere”. La lievitazione, nella madia, durante la notte, “in compagnia del calore di un ceppo rimasto acceso nel focolare”. Una volta impastato e trasformato in pagnotte, la posa “sulla tavola, poggiata tra due sedie impagliate, ricoperta dalla striscia di canapa tessuta alla meglio”.
La procedura, sin qui, “aveva richiesto – scrive Boccini – oltre un’ora e ormai albeggiava”. La casa contadina s’era messa in movimento e ciascuno s’apprestava alle faccende consuete: “I buoi da governare, la mungitura, il pollaio, gli altri animali da accudire”. Il forno bisognava scaldarlo a dovere e “sbraciare per consentire al calore di spargersi uniformemente”. Le pagnotte, a tal punto, “venivano prelevate con leggerezza e messe a cuocere con la pala di legno. Doveva passare un’ora per avere il pane, croccante e profumato”.
Un capitolo del libro è dedicato alla “marmellata di more”, raccolte durante “una estate meravigliosa per i frutti selvatici; con un settembre assolato che non voleva finire mai. Quella estate, come altre precedenti, a raccapezzare le moriche andò Giulia, che passava le vacanze in campagna. Vi trovava un approdo sicuro ove restare all’ancora per qualche settimana”.
Dunque le more. Giulia le andava a cercare – sottolinea Boccini – “quando la stagione declina nei meravigliosi colori dell’autunno e i frutti cominciano a disfarsi”. E’ la descrizione di un ambiente naturale pieno dei profumi e dei silenzi che impregnano il bosco arricchito dai rovi abbondanti di more. La cerca non si presentava mai facile e toccava “stare attenti a non pungersi, depredando la pianta dei suoi frutti, ad uno ad uno”.
Tra le incombenze agricole realizzate in comunione, la mietitura e la trebbiatura, maltempo permettendo. La meteorologia era una scienza rusticana: L’osservazione delle nuvole, dei venti, del colore dei crepuscoli (rosso di sera, buon tempo si spera). Gli accordi per i lavori comuni (in vernacolo, l’aiutarella) erano presi “all’abbeverata, sulle aie, all’incontro e valevano più di un trattato”. Subito dopo, si faceva la trebbiatura, altra incombenza svolta in comunione. Per andare infine dal molinaro e portare a casa la farina, fonte primaria dell’alimentazione.
“La trebbia traballante – ancora Boccini – piena di ruote e rotelle, volanti e stantuffi, arrivava la sera prima”. L’inizio di mattina alla buon’ora e avanti senza sosta , “ed il fiasco che passava ad ammorbidire le gole impolverate”. Il pranzo sull’aia faceva grande la festa. C’erano pure le opere di solitaria occupazione come (altro esempio) l’aratura. “Uniche compagne le vacche, bestie meravigliose che facevano vitelli e davano anche un po’ di latte”.
L’Abbecedario conduce per mano il lettore a rivivere o conoscere i riti, in parte arcani, di molte faccende della ruralità che, in tempo ormai remoto, rendevano incalzante la vita dei campi, però in un ambiente che aveva la fortuna di rispettare l’uomo, senza sofisticazioni, senza aggressioni, senza l’ossessione della rincorsa al benessere fondato soltanto sulla fatua ricchezza materiale. Forse avremmo merito se un po’ di quello spirito di campagna tornasse nelle nostre città. E’ unapreziosa eredità sociale e culturale assieme. Cosicché il Natale possa tornare un coro di umanità.