L’avvento delle nuove tecnologie nel fare giornalismo
di Adriano Marinensi
Il tempo della mia giovinezza è ormai lontano, lontano, però Matusalemme non è venuto a scuola con me. Eppure, per cose che vedo mutate attorno, mi pare d’essere passato tra molte generazioni. Forse non è una mia sensazione, perché di fronte al mutamento che sembra epocale, si sente spesso esclamare: Come cambiano i tempi! Suvvia, i tempi sono sempre cambiati. Avanti Cristo e dopo Cristo, dal Medio Evo al Rinascimento, prima e dopo una grande guerra. Sono trasformati gli usi, i costumi, il modo di affrontare la vita quotidiana. Le forme di Governo, la cultura. E, quando la differenza è in peggio, ti viene da dire, con Cicerone: O tempora, o mores.
Durante il secolo XX e nella prima parte del XXI, la disparità rapida dell’esistenza, della civiltà e persino il modo di interpretare il divenire, ci ha presi alla sprovvista. Per esempio, le scoperte del ‘900, le innovazioni successive, l’elettricità, il motore, la radio, la televisione che ti entra in casa senza alcun invito (il convitato di pietra), i nuovi mezzi di locomozione, la sconvolgente energia nucleare, i viaggi verso la Luna e l’attuale attesa di Marte per la prossima visita dei terrestri. Insieme ad altre “trappole” moderne, sono il segno palese che ti fa dire: Come cambiano i tempi! Rapidamente. Tra i nati in successivi decenni, il differenziale è rilevante. Durante la vecchiezza, persino i giorni corrono frettolosi a scapocollo.
Dal periodo universitario, sono un modesto operatore dell’informazione. Il primo articolo (titolo “La piccola Olimpiade”) lo scrissi sull’Archibugio, giornale studentesco di idee, fatti e polemiche. Sostenni che nella scuola di allora, ancora “incarognita” a far scriver di greco e di latino, non soltanto l’atletica leggera, ma altre discipline sportive andavano praticate. Otto pagine, l’Archibugio, composte in tipografia, quando i testi si costruivano a mano, lettera per lettera, tratte le lettere di metallo dal grande cassettone a scomparti, una riga alla volta, formando i blocchi. Poi ciascun blocco, il tipografo lo legava con lo spago (vecchio e nero) e, se lo spago si rompeva, gli toccava rimettere, lettera per lettera, nel cassettone. Tra una pioggia di moccoli.
Insomma, ancora un modo anteriore di stampa. Quel giornale lì, l’Archibugio, scritto dagli studenti per gli studenti, consentiva vivaci rapporti di amicizia, oltre ad un utile impegno di presenza nel mondo scolastico, mettendo in campo proprio idee, fatti e polemiche. Quando ancora i Consigli di classe non c’erano, noi c’eravamo; quando l’insegnamento era autorevole e talvolta autoritario, noi ci permettemmo di dissentire per iscritto.
Oggi, paragonando quell’Archibugio a questo Quotidiano, la differenza è macroscopica. Nessuna somiglianza, manco vaga. Il libro della comunicazione ha voltato pagina. Anzi tantissime pagine. Persino nella procedura di impaginazione della stampa ch’era solo di carta, ordinaria o patinata. Quando ci prestai servizio, la redazione della pagina locale di un quotidianoera il motore principale. Quello strategico, dove si istruivano le notizie. E’ l’unica traccia (la redazione), rimasta ancora nell’organigramma. Il meccanismo invece è stravolto.
Gli articoli “battuti sui tasti”, molti con la Olivetti Lettera 22, erano divisi in due categorie: quelli per l’edizione del giorno dopo (stava indicato su una parete: Noi non scriviamo per la storia, scriviamo per domani mattina); gli altri erano i pezzi che non scadevano. I primi, gli urgenti, li trasmettevamo al giornale con il telefono.
A pomeriggio inoltrato, ogni giorno, c’era la fissa: “Signorina, mi passa, in partenza da Roma … o da Firenze o da altrove, (così la telefonata era a carico del destinatario). Dall’altra parte, lo stenografo registrava con la sua lingua veloce dei segni.Poteva capitare che, per malaugurato malinteso, si scrivessero sul giornale, fischi per fiaschi. Una volta, mi capitò che il bidello irresponsabile si perse per strada la i e la erre iniziale e il senso dello scrivere finì capovolto. Ciò che non scadeva lo inserivamo nel fuorisacco, la busta, senza affrancatura, giornalmente recapitata (di corsa) all’Ufficio postale della Stazione ferroviaria, il servizio che garantiva l’inoltro alla redazione centrale, sui treni di linea. Questo l’iter farraginoso di allora.
Al presente, tutto funziona on line (scusate il termine forestiero). Per ogni esigenza, basta un clic. Come il mio clic di ieri. L’articolo l’ho scritto al computer – la “Lettera 22”, da epoca andata, è finita sullo scaffale come oggetto da museo – (tra l’altro, si è rotta la enne e quindi diventata inutile). Verso le dieci, con il dito ho fatto clic e, prima di mezzogiorno, il pezzo stava già in pagina. Se sfugge un errore, una parola storpiata, un fischio per fiasco, è sufficiente un altro clic, sul già pubblicato, per rimediare. La notizia apparsa sul giornale di carta è indelebile; fosse errata, sull’ on line la puoi cancellare all’istante.
In tal maniera, veloce quanto la luce, è accaduto ieri, come sempre ogni volta: è il trionfo della tecnologia. Ormai, basta un clic. E subito l’informazione passa dal produttore al consumatore. Il Re Sole è diventato proprio il computer, quel marchingegno saccente che, se scrivi scuola con la “q” oppure Pasqua con la “c”, ti sottolinea la parola, come faceva la (ultradefunta) “maestrina dalla penna rossa”. E’ verissimo: Come cambiano (e corrono) i tempi!
La notizia a sorpresa che richiama un crimine orribile
E’ questa: Mauro Favaro, detto Omar è nei guai con la giustizia. Lo accusano di violenze a danno della moglie. A tal punto, don Abbondio, il prete un po’ coniglio, inventato dal Manzoni, avrebbe detto, come per Carneade: Mauro Favaro, chi era costui? L’interrogativo è lecito perché i fatti criminosi ascritti a lui ed alla fidanzatina Erika Di Nardo risalgono a 22 anni fa, nel febbraio del 2001, a Novi Ligure, in provincia di Alessandria. La relazione precoce tra i poco più che fanciulli – 16 lei, 17 lui – non piaceva ai genitori di Erika. La ragazza se la prese molto a male e convinse Omar ch’era proprio il caso di eliminare gli ostacoli. Che si chiamavano Francesco Di Nardo e Susanna Cassini, detta Susy, i quali avevano un altro figlio Gianluca (11).
Erika e Omar realizzarono l’agguato contro Susy e Gianluca (il padre era fuori sede) mentre rientravano a casa. Quasi cento coltellate. Gli assassini, disse lei disperata ai Carabinieri, li aveva visti bene in faccia: due albanesi, autori della rapina finita male. Macché rapina finita male! Tutte quelle coltellate, mai successo nel corso di una semplice ruberia. Non ressero alle contestazioni e finirono entrambi in Tribunale che condannò Erika a 16 anni di reclusione e Omar a 14.