Il Presidente Roosevelt ottenne l’immediato SÌ del Congresso all’entrata in guerra
di Adriano Marinensi
Nessun Presidente degli Stati Uniti, aveva mai pronunciato – in una occasione solenne, davanti al Congresso – un discorso di soli sei minuti e 30 secondi. Un intervento così breve era da considerare mancanza di riguardo. Anche i collaboratori più autorevoli di Franklin Delano Roosevelt lo sconsigliarono. Lui (alla Casa Bianca dal 1933 al 1945) promise di cambiarlo, ma lo lasciò tal quale. Ritenne giusto così al fine di far colpo sui membri del Campidoglio ed ottenere una risposta di partecipazione dal popolo americano.
La posta in palio era enorme e il Presidente la gestì con grande coraggio ed autorevolezza. Con quel succinto intervento chiese alla più alta Istituzione degli Stati Uniti l’autorizzazione ad entrare nella 2^ guerra mondiale. E la ottenne in maniera pressoché unanime, tranne il voto negativo di una vecchia parlamentare che, anche da giovane, aveva votato no all’ingresso americano nella guerra europea del 1914 – 18.
Era l’8 dicembre 1941 e il giorno prima l’Impero giapponese di Hirohito (1926 – 1989) aveva aggredito senza preavviso, la base navale statunitense di Pearl Harbor, nelle Isole Hawaii, causando una ecatombe di uomini e di mezzi militari. Una potente flotta nipponica, composta da corazzate, portaerei e sommergibili, aveva scatenato, dal cielo e dal mare, una pioggia di bombe e siluri da distruggere o danneggiare mezza marineria ancorata in rada e gran parte delle installazioni militari e civili. Fu una giornata di incendi giganteschi, alimentati dalla grande quantità di carburanti in mare. E, alla fine, si dovettero contare anche quasi 2.500 morti e 1.200 feriti.
L’indignazione del Presidente Roosevelt fu violenta. In Campidoglio, iniziò dicendo: “Ieri, 7 dicembre 1941, è una data che resterà segnata dall’infamia. Gli Stati Uniti d’America sono stati improvvisamente aggrediti sull’isola di Ohau, da forze aeree e navali dell’Impero del Giappone. L’attacco ha causato gravi danni alle nostre forze navali ed alle forze militari. Mi spiace dirvi che molti americani hanno perso la vita”. Concluse: “Chiedo che il Congresso dichiari che – sin dall’attacco non provocato e codardo da parte del Giappone, di domenica 7 dicembre 1941 – esiste uno stato di guerra tra gli Stati Uniti e l’Impero Nipponico.” Il Campidoglio approvò.
A Pearl Harbor, la United States Pacific Fleet vide quasi annientato il suo presidio e ridotta drasticamente la capacità di controllo dell’area. S’erano salvate le portaerei che, quel giorno, all’insaputa dei giapponesi, si trovavano altrove. Toccava comunque salvare il salvabile e seppellire i morti. E preparare, in tempi brevi la risposta alla offesa subita dai fondamentali valori della democrazia USA. La sanguinosa guerra del Pacifico era destinata a durare a lungo, sino al 2 settembre 1945, quando venne firmato dal Giappone l’atto di resa senza condizioni, nella baia di Yokohama, a bordo della corazzata Missouri. Per piegare la arcigna resistenza dei “gerarchi” imperiali, ci vollero pure le terrificanti stragi di Hiroshima e Nagasaki.
Due furono i principali avversari che gli Alleati dovettero affrontare, prima in Oriente, poi in Europa: Il Patto tripartito, stipulato il 27 settembre 1940, tra ROma, BERlino e Tokio (ROBERTO) e il Patto d’Acciaio, come lo chiamava Mussolini, sancito tra l’Italia e la Germania, il 22 maggio 1939. Entrambi gli accordi costruirono una alleanza dall’elevato potere politico e bellico. Per gli USA, la guerra in Europa si può considerare iniziata con lo Sbarco in Normandia, quando, di fronte alle coste francesi, venne schierata la più poderosa flotta del mondo.
Dicono le pagine della storia che, quel 6 giugno 1944, si presentarono 6.480 imbarcazioni, tra navi da guerra, da sbarco, da trasporto, da appoggio ecc., divise in 58 convogli, oltre a 5.500 aerei da combattimento. Il tutto agli ordini del generale Dwight Eisenhower, il quale, anche per il successo di quella operazione, dal 1953 al 1961, diventerà il 34° Presidente degli Stati Uniti.
Il Presidente Roosevelt, fisicamente, era un andicappato grave: nel 1921 lo aveva colpito una forma acuta di poliomielite, privandolo del corretto uso delle gambe. Si muoveva su una sedia a rotelle. Ma, quell’8 di dicembre del 1941, decise di parlare in piedi di fronte al Congresso. Il momento era drammatico e la presenza del Presidente che mostrasse la sua menomazione, poteva apparire segno di debolezza per il Paese. Allora, si fece applicare alle gambe delle protesi rigide e percorse, camminando passo dopo passo, il tratto dall’ingresso alla tribuna del Campidoglio. Procedette aiutato dal bastone nella mano destra e sorretto da suo figlio a sinistra. Intese mostrare, pure con quello sforzo titanico, l’orgoglio del popolo americano.
Ho richiamato poc’anzi la tragedia delle due città martiri giapponesi, distrutte dall’atomica. Un cenno merita il “procedimento di formazione scientifica” che fu all’origine di quegli ordigni. Va sotto il nome di Progetto Manhattan, promosso dal Governo USA e diretto dallo scienziato americano Robert Oppenheimer. L’attività di ricerca ebbe inizio prima della guerra con poche risorse a disposizione, quindi crebbe velocemente sino ad occupare oltre 100.000 persone, tra le quali decine di scienziati e di esperti in varie discipline, considerata la complessità del lavoro.
Al Manhattan presero parte gli scienziati italiani Enrico Fermi (fu Nobel a 37 anni) ed Emilio Segre, due dei famosi “Ragazzi di Via Panisperna”. Gli altri Bruno Pontecorvo, Edoardo Amaldi, Ettore Majorana (quello misteriosamente scomparso) e l’umbro di Pozzuolo Franco Rasetti. Fermi e Segre espatriarono negli USA a seguito delle “leggi per la difesa della razza”, emanate in Italia nel 1938.
Dal laboratorio di Los Alamos uscirono tre bombe atomiche. La prima, sperimentale (the Gadget, l’arnese) venne fatta esplodere nel deserto del New Mexico. Le altre due (Little boy, il ragazzino e Fat man, uomo grasso) posero fine al conflitto nel Pacifico. Di quelle due terribili tragedie esiste una gremita letteratura che resta a testimonianza di quanto terrore può procurare all’umanità soltanto la minaccia di usare (Putin in Ucraina) armi nucleari di qualunque tipo e violenza. La semplice minaccia è sufficiente per distinguere un governante criminale. Mi pare di averlo già scritto, ma giova ripeterlo: Nel museo di Hiroshima c’è una grossa pietra e sulla pietra si vede stampata l’immagine di una persona. E’ ciò che resta di quella persona colpita dall’esplosione atomica. Soltanto un’ombra.