Il Maxiprocesso, Falcone, Borsellino, gli attentati di Cosa nostra
di Adriano Marinensi
La recente storia d’Italia ci dice che gli anni 1992 e 1993 hanno avuto cinque stagioni, le quattro normali e la stagione delle stragi di matrice mafiosa. I presupposti di quel periodo infausto stanno nella sentenza di primo grado del Maxiprocesso celebrato a Palermo, nell’aula bunker dell’Ucciardone, a carico di Cosa nostra, dal febbraio 1986 al dicembre 1987. Lo chiamarono maxi per via dei numeri: 475 imputati, 638 giorni di dibattimento, 200 avvocati difensori per 635 arringhe, 600 giornalisti accreditati all’ingresso nell’aula bunker. Alla fine il Magistrato Giuseppe Ayala disse: “Così il diritto vince sul delitto, la democrazia e la civiltà sulla barbarie”.
Severe condanne e imputati eccellenti
Al termine del primo grado di giudizio, furono comminati 19 ergastoli e pene detentive per un totale di oltre 2.600 anni. Condanne poi rese in gran parte definitive dalla Cassazione. Tra i condannati, detenuti o ancora latitanti: Riina, Provenzano, Calò, Greco, Bagarella, con Tommaso Buscetta nella veste di pentito credibile. A formulare le accuse il pool antimafia, composto da numerosi magistrati, tra i quali, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Passò il modello del lavoro specializzato di gruppo, conseguenza operativa resa indispensabile dai numerosi delitti interni alle cosche ed anche dalle uccisioni di uomini dello Stato quali Boris Giuliano e Cesare Terranova (1979), Piersanti Mattarella (1980), Pio Latorre e Carlo Alberto dalla Chiesa (1982).
La programmazione delle stragi mafiose
La prima rappresaglia mafiosa a quella pioggia di condanne del Maxiprocesso, fu la strage di Capaci. Un attentato spettacolare compiuto lungo l’autostrada A 29, il 23 maggio 1992, in Sicilia. Evidentemente si voleva dimostrare, in maniera eclatante, che, malgrado la decapitazione, Cosa nostra era viva e attiva. E per dimostrarlo, venne organizzato, con molta cura, l’intervento al tritolo, sotto un cavalcavia. Con un comando a distanza – azionato dal “capo mandamento” Giovanni Brusca – provocarono l’esplosione che, per la potenza innescata, fece saltare in aria un lungo tratto di asfalto e le auto blindate sulle quali viaggiavano Giovanni Falcone e la sua scorta. Oltre al Magistrato, persero la vita sua moglie e tre Agenti di polizia; 23 i feriti. Si disse che i mafiosi reclusi all’Ucciardone di Palermo festeggiarono l’evento.
La Commissione di Cosa nostra
La decisione di quel crimine era stata presa, tempo addietro, dalla “Commissione interprovinciale di Cosa nostra”, presieduta dall’ancora latitante Totò Riina. La sua cattura, avvenuta il 15 gennaio 1993, richiese uno straordinario impegno investigativo da parte delle Forze dell’ordine, che si avvalsero della collaborazione dell’ex mafioso Baldassarre Di Maggio, detto Balduccio. Fu proprio Di Maggio a riconoscere Riina mentre usciva da una casa di Palermo. Il Capitano Sergio Di Caprio, il famoso Capitano Ultimo, insieme ai suoi uomini, procedette al clamoroso arresto. Il “capo assoluto” di tutti i capi finì in prigione dove è morto il 17 novembre 2017, dopo aver subito una pluralità di processi e di condanne all’ergastolo.
La mafia, che non amava perdere tempo, completò la sua vendetta contro i Magistrati del pool. A Palermo, in Via Mariano D’Amelio abitavano la madre e la sorella di Paolo Borsellino. Il 19 luglio 1992, è domenica e gli assassini sanno che il Magistrato si recherà a far visita alle due donne. Parcheggiano dinnanzi al palazzo di Via D’Amelio la solita macchina rubata, con una carica di esplosivo comandato a distanza, come a Capaci.
Morirono in sei, Borsellino e i cinque della scorta, compresa Emanuela Loi, il primo Agente donna a perdere la vita in servizio. L’unico sopravvissuto descrisse così l’evento: “Stavo parcheggiando l’auto di servizio poco lontano. All’improvviso è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata e l’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Attorno c’erano brandelli umani sparsi dappertutto”. Erano trascorsi soltanto 57 giorni tra i due fatti criminosi e l’indignazione fu enorme. Ma non era finita lì.
Gli attentati di Firenze, Milano e Roma
Nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993, a Firenze, in Via dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi, con un ordigno (circa 30 kg di tritolo), Cosa nostra compie un attentato terroristico contro persone presenti per caso sul luogo del delitto. Cinque civili perdono la vita: Una giovane coppia e i suoi figli di 9 anni e meno di due mesi, insieme ad uno studente di 22. Nella fattispecie, al conto delle vittime si dovettero aggiungere quello dei danni al patrimonio culturale della città. Viste le modalità del crimine, non fu difficile il collegamento ai precedenti fatti di Palermo ed alla matrice oscura di Cosa nostra. Due settimane prima c’era stata anche la fallita aggressione mafiosa al giornalista Maurizio Costanzo.
Siamo al 27 luglio 1993. A Milano, ancora uno scoppio omicida con cinque morti. In Via Palestro, un Vigile urbano nota del fumo che esce dal cofano di una Fiat parcheggiata di fronte al Padiglione della Mostra d’arte contemporanea. Chiama i Pompieri che accorrono prontamente. Un attimo dopo lo scoppio. A morire sono tre Vigili del fuoco, la Guardia comunale e un nomade marocchino che dormiva su una panchina a poca distanza. Quasi non bastasse, durante la notte successiva, nello stesso posto, ci fu una deflagrazione di gas che aggiunse altri gravi danni. Poi, Cosa nostra colpisce a Roma, con la stessa tecnica: bombe davanti alla Basilica di S. Giovanni in Latrano ed alla Chiesa monumentale di S. Giorgio al Velabro. Sommano una ventina di feriti al bilancio di quella funesta stagione in più del biennio 1992 – 93, addebitata all’alto tasso criminale di Cosa nostra.
La trattativa Stato – mafia che non c’è mai stata
Da questa serie di violente aggressioni, è derivato il castello di accuse che ha coinvolto personaggi di spicco, crollato miseramente, il castello in aria, con la sentenza demolitrice (settembre 2021) della Corte d’Assise d’Appello di Firenze. Così come altri recenti procedimenti penali, intentati dagli inquirenti, che per molti anni e per altri motivi (vanno citati come esempi), misero alla gogna i politici Calogero Mannino e Raffaele Lombardo. E, nel 2016, l’ex Sindaco di Terni Leo Di Girolamo, tutti assolti dalla Magistratura giudicante. Grosse pietre di’inciampo lungo il percorsodella giustizia italiana. Quella con l’iniziale minuscola.