La storia, a volte, ce l’hanno raccontata in modo apocrifo
di AMAR
Si sa per certo che nella Roma antica, glorificata dalla storia moderna e sui miei libri di scuola, non tutto quanto accadde fece sorridere d’orgoglio le aquile che campeggiavano sopra i labari e le insegne dei legionari mandati alla conquista di ciò che c’era allora da conquistare. Quella Roma non fu cordiale neppure con i propri governanti. Prendiamo ad esempio (però emblematico) il primo secolo dopo Cristo, dal 37 (poco oltre la morte e resurrezione del Redentore) all’anno 96.
Ai vertici dell’impero fu una tragedia in più atti. Il primo ad entrare in scena, l’assurdo Caligola (37 – 41) che ne fece di tutti i colori e morì assassinato. Di seguito Claudio (41 – 54), assassinato pure lui. Ed ecco Nerone (54 – 68), lo dettero morto suicida. Ancora Galba (68 – 69), ammazzato, quindi l’altro suicida Otone (gennaio – aprile 69) e lo stesso anno, da maggio a dicembre, Vitellio, assassinato. Poco più tardi (81 – 96) fecero fuori pure Domiziano. Insomma, a quel tempo ritenuto glorioso, in meno di cento anni, soltanto Vespasiano (69 – 79) e Tito (79 – 81) ebbero il “privilegio” di morire il primo di vecchiaia e l’altro di malattia. I restanti, tutti caput.
Dunque, nel 37 d. C., Imperatore di Roma è Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico detto per brevità Caligola e per via dei calzari (le calighe) che aveva l’abitudine di portare ai piedi. Lo elesse Imperatore il Senato sulla spinta del popolo che lo amava. Ma la scelta non fu felice, perché, dopo una grave malattia – lo scrive Fione di Alessandria – “si trasformò in essere selvaggio e mise a nudo il carattere bestiale”. Successivamente dette segni di “follia sanguinaria”.
Lo storico Eutropio ci ha fatto sapere: “Mentre tiranneggiava su tutto con la più grande avidità, licenziosità e crudeltà, fu assassinato nel ventinovesimo anno di vita”. Dall’altro storico Cassio Dione sappiamo: “Era solito portarsi a cena uno dei suoi cavalli, gli offriva orzo e beveva vino nei calici dorati. Si ripromise di nominarlo Console, promessa che avrebbe sicuramente mantenuto, se avesse vissuto più a lungo”.
In contrasto al Senato, i Pretoriani, dopo di lui, elessero Imperatore Claudio. Promosse importanti opere pubbliche tra le quali il famoso acquedotto lungo quasi 70 chilometri. Fu avvelenato dalla seconda moglie Agrippina che riuscì a fargli adottare Nerone al posto di Britannico, figlio della prima moglie. Nerone organizzò un governo dispotico. Le prime vittime furono la stessa madre, la prima moglie e il “consigliere” Seneca. La storia l’ha riempito di notorietà (l’incendio di Roma da lui attribuito ai cristiani, la maestosa Domus Aurea fatta costruire come sua residenza, gli atteggiamenti da divo delle arti). Abbandonato dai Pretoriani e dall’esercito, fu deposto dal Senato e lui si tolse la vita.
Si giunse al 69 d. C., il cosiddetto anno dei 4 Imperatori): Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano. Galba governò per appena 7 mesi, sino al 15 gennaio. Lo deposero i soliti Pretoriani e lo assassinarono. Ecco Otone che fu sul trono per 3 mesi e un giorno. Il ribelle Vitellio scese in armi dalla Germania, gli fece guerra e Otone si uccise. Vitellio fu Imperatore per 8 mesi e 4 giorni. Lo eliminarono i soldati di Vespasiano che lo sostituì al potere di Roma per i successivi 10 anni.
La fine cruenta di tanti Imperatori, in così breve tempo, dimostra che, nella Roma antica, la gestione della cosa pubblica non somigliava affatto alla pacifica democrazia e l’aureola di civiltà imposta dalla storia spesso si è rivelata un orpello. Le lotte connesse alla conquista ed alla difesa del comando spesso hanno comportato scontri oltre il limite della correttezza. Similmente alle guerre di conquista affatto destinate ad “esportare” la cultura romana e civilizzare i “popoli barbari”. Nei primi miei anni scolastici c’erano, in Italia, la “fede e l’apoteosi della romanità”: le gesta perciò andavano comunque glorificate. Comprese le guerre e i crimini imposti ad interi popoli sottomessi.
Pensiero suggestivo
I 4 o 5 “seguaci” che ho, il breve racconto che segue, forse l’avranno già letto nel passato remoto. Vuol dire che si faranno un’altra risata di simpatia. Riguarda un evento curioso accaduto nel paese mio che sta sulla collina (Totò avrebbe detto “dove nacquetti”) e ti dà il primo benvenuto se, provieni da Terni e vai a visitare la splendente Valnerina. Dunque, la location – come dicono oggi quelli che scrivono in tono alto – è Papigno, centro storico di buonlivello ambientale, pochi passi prima della Cascata delle Marmore.
Un vecchio paesano s’era messo in capo di lasciare un ricordo del proprio passaggio terreno. Aveva coniato una frase peraltro testimone del suo pensiero politico. Non per scriverla sul muro: in tempo a venire, qualcuno l’avrebbe potuta cancellare. Studiò un modo per renderla quasi indelebile. Ebbe il primo figlio. All’anagrafe l’impiegato gli chiese: Quale nome gli vuoi dare? E lui: Avanti. Il brav’uomo aggrottò le ciglia e regi la nascita.
Il secondo nome che il paesano aveva in mente per darlo al successivo pargolo era Vero. Invece, nacque una femmina, chiamata Vera. Peccato, non faceva al caso suo. Giunse il terzo e la solita domanda all’anagrafe comunale. Risposta: Ideale. Passarono poco più di nove mesi ed eccone un altro. Lui disse: Libero. E un altro ancora: Ribelle. Nacque il settimo. Il padre all’anagrafe: Comun… e la voce gli si bloccò in gola.
Evidentemente stava per dire Comunista, però gli anni erano passati e intanto il regime fascista camminava verso il potere. Forse ripensò di botto ai castighi che venivano “elargiti” agli avversari rossi (olio di ricino e manganello). Fu così che l’ultimo figlio si chiamò Comunardo. Tanto si capiva lo stesso. Così la frase fu completa: Avanti il (vero) ideale e il libero pensiero del ribelle comunardo.
Sembra una leggenda metropolitana. Macché, è un fatto realmente accaduto. Lo testimonia, in una intervista, lo stesso Comunardo, il quale elenca i nomi dei fratelli e sorella, immortalati nelle pagine di un libro (Biografia di una città di Alessandro Portelli) che tratta la storia di Terni. E la figlia Vera? Rivela Comunardo: Ebbe anche una appendice al nome: Spiritanova. Mente chi afferma che la coerenza non è una virtù.