Pearl Harbor (dicembre 1941): La Casa Bianca sapeva dell’attacco?
di Adriano Marinensi
Se dietro un dittatore, tronfio come un tacchino, mettete una stuolo di generali e ammiragli che ritengono la guerra necessaria, onorevole e inevitabile, il disastro è annunciato; il Paese e il popolo trascinati dentro l’avventura, per finire nel disonore della disfatta. E’ quanto accadde 80 anni fa al Giappone che s’era messo in testa di diventare il dominus assoluto nella vasta zona dell’Oceano Pacifico che gli stava attorno. La gloria e la vittoria come parole d’ordine, in un turbinio di azioni guidate dall’istinto fanatico e dal disprezzo della propria vita e degli altri.
E così fu Pearl Harbor, nel dicembre 1941: La Grande sfida che mutò il corso della 2^ guerra mondiale.Sino a quel momento, i nemici incontrati e sconfitti dai giapponesi erano asiatici come loro. Finché decisero di aggredire gli USA del Presidente F. D. Roosevelt. A fare la guardia in quella zona dell’Asia stava una parte importante della flotta americana, con base nell’arcipelago delle Hawaii, 4000 km dalle coste della California e più di 6000 dal Giappone. Una presenza che per i governanti del Sol Levante, era una dolorosa spina nel fianco. Occorreva eliminarla. Tentarono addirittura di distruggerla, per sopprimere ogni ingerenza nei propri piani egemonici.
A Tokyo, c’era l’Imperatore Hirohito, un mammasantissima quasi divinizzato, governanti altezzosi, uno Stato maggiore votato al perenne combattimento in cielo, in terra e in ogni luogo, oltre ad un apparato militare sontuoso. Dunque, tutti gli ingredienti per fare gigante la Patria. Persino la numerosa falange addestrata al sacrificio estremo: I Kamikaze, piloti suicidi, il vento divino. Che si gettavano, imbottiti di esplosivo, con l’aereo, sulle navi nemiche. Il progetto dell’attacco a Pearl Harbor lo allestirono nei minimi particolari, intorno ad una flotta poderosa, dove primeggiavano le portaerei e le corazzate. Quando tutto fu pronto, i guerrieri presero il mare. Era il 26 novembre 1941 e l’avvicinamento all’obiettivo fu lungo e complicato da nebbie e tempeste. Tutto nel totale silenzio radio per non offrire segnali di identificazione. La fortuna dette una mano e, all’alba del 7 dicembre, scatenarono l’inferno.
La base americana era fornita di difese in grado di salvaguardare l’enorme apparato logistico e militare. Depositi di armi, viveri, carburanti e quant’altro era necessario per mantenere l’intera guarnigione e le strutture accessorie. Per quelli di stanza a Pearl Harbor, l’esistenza non è che fosse granché. Il solito andazzo della vita di caserma in tempo di pace. Ozio in prevalenza e attività di ordinaria amministrazione per ammazzare il tempo. E quel lontano giorno di dicembre, il tempo per ammazzare gli americani se lo presero quelli con gli occhi di sghimbescio.
All’improvviso, il cielo divenne gremito di aerei – 360 dicono i bollettini di guerra – che misero la base a ferro e fuoco. Tanto fuoco che divampò rapido, alimentato dal carburante e dal ben fornito arsenale. Paurosi e distruttivi incendi persino in mare. Esplose mezzo mondo. Quel giorno era domenica e a favore della sorpresa e dei suoi disastrosi effetti, giocò proprio il clima festaiolo. Il bilancio, una debacle: Quasi tutte le navi da battaglia presenti in rada subirono danni, alcune di grossa stazza e di rilevante valore militare vennero affondate. Le perdite umane ammontarono a 2500 morti e una infinità di feriti e ustionati. La proditoria sopraffazione aveva funzionato secondo le aspettative degli aggressori. Ma, ebbe effetto anche in America, suscitando l’indignazione popolare. Che fu il principale motivo per la immediata reazione. Ci fu una chiamata dell’orgoglio yankee e Il Congresso autorizzò la dichiarazione di guerra. Subito, il giorno dopo.
Una macchina di produzione bellica si mise in movimento e Pearl Harbor segnò la prima tappa verso la sconfitta dei guerrafondai, dei bellicosi, sempre atteggiati in aspetto marziale (adoratori di Marte, dio della guerra). Venne presto (4 – 7 giugno 1942) la vittoria navale USA alle Midway, con perdite enormi da parte nipponica (4 portaerei affondate) e la lotta sul mare cambiò rotta. Più tardi ci furono Guadalcanal (agosto ’42 – febbraio ’43), Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto ’45). Infine, il 2 settembre 1945, la cerimonia della resa del supremo Hirohito, firmata, a bordo della corazzata USS Missouri, dai rappresentanti dei due Paesi.
Qualcuno, di fronte alla scarsa reazione del presidio americano, quel nefasto giorno, a Pearl Harbor, ha supposto che la Casa Bianca non poteva non sapere dell’imminente attacco.Addirittura avrebbe ignorato le segnalazioni dei Servizi, per disporre della provocazione e aprire le ostilità contro un Paese ingombrante in quella parte orientale del Pianeta. Se così fosse, la grande storia americana sarebbe macchiata da un atto di disonore. Visto l’apporto decisivo alla sconfitta del ROBERTO (Roma – Berlino – Tokio), l’argomentazione diventa semplice paralogismo.
In Europa, il conflitto era finito qualche mese prima, quando gli americani, sbarcati in Normandia e i russi riarmatisi dopo Stalingrado (la battaglia più sanguinosa d’ogni tempo) strinsero in una morsa, poi occuparono Berlino, dove, nel bunker sotto la Cancelleria, Hitler si uccise insieme ad Eva Braun ed all’intera famiglia Goebbels (marito, moglie e sei figli piccoli). Anche questo tratto della 2^ guerra mondiale ebbe una svolta. La monumentale follia di Adolf Hitler, lo spinse a svegliare il cane che dorme, come avevano fatto i giapponesi a Pearl Harbor. La Russia sovietica era Paese non belligerante, in base al patto Molotov – Ribbentrop, sottoscritto nell’agosto del 1939 tra Russia e Germania. Il baffino macabro ritenne fosse superato quando (eccola la seconda svolta) decise di dare inizio (giugno 1941) all’Operazione Barbarossa, l’obiettivo ideologico – militare, perseguito per la germanizzazione dei popoli slavi d’oriente.
I nazisti entrarono in campo con un esercito di invasione numeroso e bene armato. In sei mesi, lungo un fronte di migliaia di chilometri, giunsero fino a Mosca. L’assalto sorprese Giuseppe Stalin e l’Armata rossa. A quel punto e di fronte al “tradimento” germanico, l’intero popolo sovietico venne chiamato alla riscossa. Trovò un potente alleato nel terribile gelo dell’inverno, lo stesso che aveva dato una mano a ricacciare indietro la “grande armata” di Napoleone Bonaparte. E che valse più delle armi. Vedi esemplarmente, il libro di Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio. Dunque, non svegliare il cane che dorme: L’Orso russo, destato inopportunamente tirò fuori le unghie e cacciò lo straniero. La tracotante insolenza nazistafinì in rotta. Sconfitto l’esercito, battuto chi aveva umiliata la civiltà umana, con la più devastante guerra mai combattuta sul nostro Pianeta. Ricoperto di croci, da tanto orrore.