Il tragico comizio di Berlinguer, l’attentato al treno 904, la burla di Livorno
di Adriano Marinensi
Scorrendo le cronache d’ogni anno, si possono cogliere avvenimenti che hanno, a vario titolo, il valore della memoria storica. Per esempio il 1984, quaranta appena compiuti. Il rilievo spetta almeno a tre accadimenti: 1) 11 giugno, dopo tre giorni di agonia, muore Enrico Berlinguer, il Segretario del Partito comunista italiano: 2) 23 dicembre, attentato terroristico al treno Napoli – Milano; 3) 24 luglio, la burla delle false teste di Modigliani.
“All’improvviso divenne pallido”: fu questo il titolo apparso su la Repubblica dell’8 giugno. E l’articolo cominciava così: “Enrico Berlinguer è in coma. Un ictus cerebrale lo ha colpito al termine di un comizio, a Padova”. Un paio di settimane dopo, si svolsero, per la seconda volta, le elezioni del Parlamento europeo, vinte dal Gruppo socialista con 130 seggi, davanti al P. P. E. con 110 seggi – Italia 81. Berlinguer stava parlando in piazza di fronte a circa 5.000 compagni, convenuti da tutto il Veneto. Occorreva dar loro la motivazione per un voto consapevole che riguardava la nuova realtà multinazionale ed alla sinistra la ragione per un ruolo di governo.
Erano circa le dieci della sera, quando, la sua voce ebbe un sussulto. Il grande schermo, allestito dal suo partito, cominciò a trasmettere le immagini di un uomo in forte difficoltà. Che però volle andare avanti con tenacia per portare a termine il discorso. Si reggeva in piedi a mala pena. La volontà ferma di concludere ad ogni costo l’intervento che riteneva importante. Un europeista, coautore del compromesso storico. “Il compagno Berlinguer – disse una voce al microfono – ha preso freddo e si sente poco bene”. Aggiunse: “Il comizio è finito”. La diagnosi dei medici sapeva invece di dramma e il ricovero in ospedale indispensabile. La conferma della gravità venne dagli esami neurologici che resero urgente un intervento al cervello. Berlinguer aveva 62 anni, era Deputato dal 1968 e Segretario del P. C. I. dal 1972.
Il giorno dopo, Giorgio Bocca scrisse: “C’è una stupenda fotografia di lui, a Mosca, fra Breznev e Suslov, i due sovietici con gli abiti scuri, il petto coperto da medaglie, i sorrisi ottusi, enigmatici, le facce smorte del potere mummificato; e lui in mezzo, abito grigio, cravatta male annodata, le spallucce gracili, un passerotto capitato tra due mastini.” L’11 giugno, poco dopo mezzogiorno, lo portarono dal reparto rianimazione all’obitorio.

Ed eccolo un altro tragico titolo di giornale: “Un treno, una bomba, un Natale di sangue” Nella stessa pagina, sta scritto: “Gonfia, lacerata, contorta, la carrozza entra lentamente nella stazione muta. Uomini e cose sono pietrificati da una patina di gelo e silenzio. I barellieri trasportano forme assurde, coperte da lenzuoli bianchi che sono stati uomini, donne, bambini.” La carrozza lacerata e contorta apparteneva al treno rapido 904; la bomba terrorista – “un ordigno ad alto potenziale” – era esplosa su quel treno, la vigilia di Natale, nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro, sulla tratta Firenze – Bologna.
I giorni delle festività natalizie avevano riempito il convoglio proveniente da Napoli e diretto a Milano. L’esplosione radiocomandata si verificò all’interno della Grande galleria dell’Appennino, un tunnel lungo 19 chilometri, che va da Vernio Montepiano in provincia di Prato a San Benedetto Val di Sambro, facente parte della città metropolitana di Bologna. L’ordigno causò 16 morti (tra i quali 3 bambini) e 267 feriti. Dalle indagini emersero intrigati collegamenti tra la mafia, la camorra, gli ambienti neofascisti, la P 2 di Licio Gelli e la banda della Magliana.
Ma, torniamo alla cronaca diretta di quel Natale insanguinato, nella stazioncina e nella galleria che dieci anni prima (1974) avevano conosciuto l’infamia di un altro attentato (treno Italicus – 12 morti e oltre 40 feriti gravi). La sala d’aspetto della piccola stazione di S. Benedetto V. di S. trasformata in una infermeria con, in parte i soccorritori dell’Italicus. Si cerca di tirar fuori dalla Direttissima l’intero convoglio con estrema fatica. Dieci anni prima c’era stato il tentativo di addebitare l’esplosione ad una bombola di gas nel vagone ristorante. Questa volta la matrice di tanta violenza è apparsa subito evidente. Il ricordo di qualcuno va ai precedenti: 1969, Milano – Piazza Fontana; 1974, Piazza della Loggia; 1980, Stazione di Bologna.
Nella galleria si lavora alacremente intorno al treno della morte, mentre la notte sta per finire. La tragedia è ormai compiuta, la strage entrata a far parte della storia del terrorismo italiano. Non sarà però l’ultimo attentato e neppure l’ultima violenza che rimarrà impunita. Furono gli anni della strategia della tensione e della strage degli innocenti.

Fin qui il dolore. Ora la tragicommedia delle teste di Modigliani, detta anche la “beffa di Livorno”.Fu uno scontro da far ridere tra tre ragazzi e alcuni sussiegosi critici d’arte italiani. I fatti andarono così. Una leggenda metropolitana parlava del famoso pittore-scultore toscano che, irato con i suoi concittadini avrebbe gettato alcune sue opere – i faccioni ovali, quelli dal naso lungo dalla fronte alla minuta bocca – dentro il Fosso reale di Livorno. Nel mese di luglio del 1984, due di quelle teste erano state ripescate casualmente. Sottoposte al parere di illustri esperti, avevano ottenuto il “visto di autenticità”. La notizia assunse i contorni dello scoop: Il patrimonio d’arte italiano s’era arricchito di cotanti capolavori.
Tre giovani universitari rivelarono, in una intervista, che Amedeo Modigliani non c’entrava un tubo: i faccioni li avevano scolpiti loro e poi gettati nella melma dell’acquitrino. La critica aveva detto il falso? La parola di anonimi studenti contro quella di famosi professori. Per i tre non restava che dimostrare con i fatti la loro affermazione. Si allestì un tavolo da lavoro, la pietra necessaria, una ripresa televisiva (TG 1) e loro, i buffalmacchi, tic toc, tic toc, scalpello e martello, rifecero la testa tal quale, Presente il notaio. E allora, i drastici pareri di chi sulle facce ci aveva messo la faccia, attribuendone la paternità all’arte di Modi? Una mandria di bufale!
Pensiero intrepido
Il 31 maggio prossimo fanno 2 anni da quando, nel Palazzo comunale di Terni, regna il monocolore dell’uomo solo al comando. Di rilevante, in città, non è accaduto nulla. Proprio nulla. Tranne nell’aula del Consiglio dove è cambiato il linguaggio politico (?): Oggi si parla il gergo della parolaccia. Come dire: Nelle Istituzioni è il nuovo che avanza-