Una “frana” di pareri contrari si è abbattuta sul “Progetto Calderoli”
di Adriano Marinensi
Ci mancava l’Unione Europea a dir male della riforma regionale differenziata così come proposta da Calderoli, dalla Lega di Salvini e sostenuta dai “grassi” governi nordisti. La guerra di secessione, scatenata dal vecchio separatismo lumbard oggi al potere, sta assumendo contorni sovranazionali. Mette a rischio – è stato detto a Bruxelles – i conti, già abbastanza precari, del bilancio tricolore.
Prima dell’intervento di mamma Europa (voce stentorea in quanto è quella che ci sta dando molti quattrini in prestito agevolato e a fondo perduto), i NO nazionali erano venuti da alcune Regioni, da molti Comuni, da Organizzazioni sindacali, sociali e di categoria, dal mondo della sanità, da esperti in materia, da presìdi democratici popolari di ogni ordine e grado. Qualche perplessità pure nella maggioranza. E pareri assai critici nel corso delle audizioni parlamentari. Insomma, sono di notevole spessore i giudizi avversi al regionalismo asimmetrico.
Così l’Italia resta divisa tra ricchi e poveri
Dunque, un NO corale che però non ha fatto affatto riflettere il molto onorevole signor Ministro, il quale continua ad intignare sul suo progetto con una tenacia degna di miglior causa. Un progetto giudicato divisorio e destinato ad aumentare le differenziazioni tra le due Italie, perché tutto orientato al favoreggiamento dei territori d’Oltrepò. L’appello recente del Presidente della Repubblica all’Italia unita da nord a sud è parso un richiamo che sa di contrarietà verso l’attuazione di qualunque separazione autonomista di vecchio stampo celodurista.
Gli antagonisti sostengono che i poveri resteranno più poveri e i ricchi più ricchi. Non è quindi una riforma destinata a fare da livella. Secondo la U. E., non è manco credibile che si possa realizzare a costo zero, con lo Stato centrale destinato a perdere il controllo delle spese di bilancioe quindi il rischio reale di finire in dissesto. Mi è sembrato emblematico il titolo che ho letto sopra un giornale di carta. Dice lapidario: l’Unione Europea stronca l’Autonomia. Di contro, il signor Ministro continua a sostenere che il racconto degli oppositori (variegati, signor Ministro e non soltanto ristretti alle forze di opposizione) non vale una cicca e che le sue idee riformatrici, così come rese nella proposta, sono sacrosante.
La perseveranza diabolica
Per cui diventa opportuno rispolverare il saggio ammonimento che recita: Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. E’ dunque satanico insistere nell’errore commesso. Per superbia e arroganza politica. Sant’Agostino di Ippona, al molto onorevole signor Ministro e ai suoi adepti (a scopo di potere e di lucro) prova a dirglielo tu! Post scriptum. Per completezza di informazione, il Disegno di Legge, approvato dal Governo, come indicato dalla Presidenza del Senato, ha questo titolo: Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art 116, terzo comma, della Costituzione.
L’alluvione del Polesine nel 1951
In occasione di un incendio oppure di un allagamento, mio nonno buonanima, che conosceva soltanto il dialetto ternano, usava sentenziare: All’acqua e a lu fucu, Iddio je dia lucu. Nel senso che, soltanto il Padreterno può trovare rimedio a tali calamità. Guardando cosa è successo in Emilia – Romagna, riusciamo a capire la saggezza dell’adagio. Me ne ricordo un’altra di calamità ch’ebbe l’acqua per protagonista: Polesine 1951. Il territorio, in parte pianeggiante e persino sotto il livello del mare, che subì la catastrofica inondazione, si trova tra il basso corso dei fiumi Adige e Po e l’ Adriatico, in provincia di Rovigo, al confine con Verona e Venezia.
Le “bocche di rotta” del Po fecero un massacro
L’anno 1951, fu particolarmente piovoso, anche in quella parte d’Italia, quasi totalmente dedita all’agricoltura ed alla pesca. Quando, in autunno inoltrato, sulla Pianura padana, piovve a catinelle, trovò un terreno già bene inzuppato. Si ingrossarono i fiumi e, il 12 novembre, suonò il primo allarme. Cominciammo a vedere sui giornali e i cinegiornali (la T .V. ancora non c’era) immagini, in bianco e nero, paurosamente simili a quelle di oggi trasmesse a colori. Prima la tracimazione, poi la rottura degli argini del Po, scaraventarono un quantitativo d’acqua tale da sommergere campagne e casolari.
Lo spopolamento del territorio
Eravamo appena usciti dal dies irae della guerra e privi di una organizzazione di pronto soccorso ambientale. Non fu possibile la rapida rimarginazione delle sponde del grande fiume e l’economia della zona subì una vera e propria disfatta. Tre le principali bocche di rotta. Finirono sommersi circa 1.000 chilometri quadrati di territorio e il volume d’acqua venne stimato in 8 miliardi di metri cubi. Un centinaio di persone persero la vita, 180.000 i senzatetto, in quella che si trasformò in catastrofe nazionale. La lunga indisponibilità delle terre coltivate ebbe ad effetto aggiunto l’esodo delle popolazioni: molti abitanti non fecero più ritorno alle loro case devastate dalla furia dell’acqua. Un forte processo di spopolamento subì il Polesine.
Spesso è anche l’uomo sul banco degli imputati
Il disastroso evento, che oggi ha messo in ginocchio l’Emilia – Romagna, è testimone brutale degli affetti provocati dalla natura, quando eccede nei suoi assalti violenti. Spesso l’accusa di correità va rivolta alle attività umane, causa non secondaria dei dissesti idrogeologici, conseguenti alla disattenzione verso il territorio. Ed anche al modo dissennato del costruire a sbarramento, che costringe la pioggia ad incanalarsi in maniera difforme dal suo corso normale, aumentando la violenza della elevata quantità. In molte zone d’Italia, in concorso di reato, c’è pure l’abusivismo edilizio e la edificazione intensiva attuata da sovradimensionati Piani regolatori. Insomma, quando accadono episodi di sovvertimento ambientale – seppure escludendo i fatti dell’oggi e di 72 anni fa – non sempre sul banco degli imputati possiamo mettere la natura da sola.