Ugo Foscolo chiede: Il sonno della morte è men duro?
di Adriano Marinensi
Visitare Cimiteri potrebbe essere un gesto di devoto omaggio a tante memorie oppure l’ammirazione rispettosa per le testimonianze d’arte che, in taluni di essi, accompagnano l’eternità dell’ultima dimora. Ugo Foscolo, con l’ode Dei Sepolcri, cerca la risposta ad un interrogativo esistenziale e chiede: All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto, è forse il sonno della morte men duro? Di certo, il ricordo, la commemorazione, le onoranze sono espressione di sentimenti connaturati con l’indole dell’uomo.
Nel precedente articolo sui Rolli di Genova, s’era detto che il “mausoleo dell’aldilà” ivi esistente richiedeva una trattazione a parte. Ed allora eccolo il simulacro dell’ultima dimora. Era di maggio – 17 anni fa – quando entrai nel Camposanto monumentale di Staglieno. Ne feci un “ritratto” succinto. Invece quel famedio merita di più. E’ un luogo dove la fede, la storia, l’arte si mescolano alla pietas ed alla rimembranza spettacolare. Sottolineano, nell’enfasi del marmo, il quesito foscoliano. E’ un museo funebre, in un contesto ambientale di natura rigogliosa.
Il suffragio, la prece si traducono in figure maestose. Una varietà di ornamenti architettonici ha propagato la fama di questa terra da ultimo viaggio. A Staglieno, quasi tutto è tradotto in magnitudine. Alla vista, ti domandi: Ma come funziona la rinomanza? Pure con una tomba mirabolante? A Staglieno, si! Dove splende la monumentalità solenne del destino ultraterreno.
Dalla metà del XIX secolo, vi hanno operato architetti e scultori, lungo quattro percorsi: Classicismo, romanticismo, realismo e simbolismo liberty, con palese maestria. Nella parte di maggiore effetto, si parla un linguaggio figurativo mistico, quasi che la generosità del decoro fosse catartica. Vi stanno tratteggiati il culto, la preghiera, l’amore senza tempo. Sono sepolture dove il defunto spesso assume sembianze sovrastanti la realtà della sua vita terrena. C’è, ad esempio, la rappresentazione scenica di un capezzale con sopra il corpo del trapassato, i parenti affollati intorno, i volti atteggiati alla mestizia. E c’è pure (però si tratta di una eccezione) il sacello di una “ghirba” senza grido alcuno – quello di Margherita Campodonico, venditrice di noccioline – che dedicò l’intera vita a risparmiar denari per avere un sepolcro a Staglieno.
Allora ti sovviene Totò e la sua poesia intitolata ‘A livella che attribuisce alla “falciatrice” il potere di far diventare gli uomini tutti uguali. In quello spazio, l’umile bottegaia riposa accanto all’illustre concittadino. Che, per l’ultima dimora ha voluto catturare, per se stesso e tanti altri, un afflato di fama postuma, affidando la memoria alla pietra. C’è la tomba che mostra la reputazione del committente e la sua sposa ritratta in ginocchio nel gesto di deporre una corona di mirto, emblema del legame coniugale. Da presso, la figura femminile avvinta all’avello come in un supremo atto di dedizione assoluta. Ed ancora, l’imponente immagine degli sposi sepolti insieme e immortalati in uno slancio di perpetuo affetto. Prevalgono le icone in tantissime pose, a testimoniare le passioni umane e il Paradiso. E qualche “deposizione”, con il lutto, in forma muliebre, che reca tra le braccia il defunto. Espressioni dolenti, ma consolatorie.
Sono tante le personalità eccellenti, sepolte a Staglieno. Eccone alcune: Giuseppe Mazzini e sua madre Maria Drago, Nino Bixio (patriota), Michele Novaro (il musico dell’Inno di Mameli), l’armatore Rubattino che “prestò” le navi a Garibaldi per la Spedizione dei Mille, Fabrizio De André (cantautore), Giacomo Doria (esploratore), Ferruccio Parri (ex Presidente del Consiglio), Gilberto Govi e Claudio Gora (attori), la Duchessa Carlotta di Sassonia, la moglie di Oscar Wilde. Questi e molti altri affollano i circa 30 ettari di gallerie, scale, porticati e una letteratura di storie, aneddoti e leggende che hanno inserito Staglieno nel progetto internazionale che, dal 2010, include 60 Cimiteri turistici di 20 Paesi europei. Nell’800, per un genovese e la sua caratura di famiglia, avere il “dolmen” lassù, ha rappresentato quasi l’equivalente di un attico ai Parioli per un romano.
C’è pure la barca nella tempesta e il marinaio che sorregge le vele, la vedova che bussa alla porta del sepolcro, ci sono la statua della Fede e il Pantheon. Bene intonata al valore artistico, la Chiesa alla sommità del colle. Il cherubino ad ali spiegate, cinge, con serto di alloro, una testa sicuramente illustre. Si ammira una figlia, a grandezza naturale, che piange suo padre, “fidando – sta scritto – nel Dio consolatore”. Prevalgono, a Staglieno, volti dall’espressione tribolata, il velo funebre indossato come un cilicio ad esternare il tormento del lutto. Ho visto la lapide dedicata – si legge – “al Garibaldino, decorato di medaglia al V.M., dotto giureconsulto, potente oratore, Deputato al Parlamento, carattere franco elevato”.
Sotto una selva di lecci sta l’angolo un po’ dissonante dei bambini, le loro minuscole tombe bianche, senza ornamento, che fanno tanta tenerezza: Il Cimitero di Lilliput. Daniele, anni 8, lo sguardo quasi stupito che ti domanda muto: Perché la mia vita appena cominciata, è già finita? E tutti, nelle immagini, ti osservano con espressione innocente, ugualmente fanciulli, accomunati nel destino del trapasso breve. Ti stanno di fronte e forse suggeriscono all’uomo di allontanarsi dall’illuminismo della razionalità che pretende di rimuovere il mistero dell’oltretomba.
Nel Cimitero di Staglieno, come in altri altrove, si ascolta il silenzio di quel che era e non è più. Proprio in quella quiete, la voce terrena della pace, della tolleranza, della solidarietà ti interpella, cercando le risposte nella coscienza. Ed allora il pensiero torna ad Ugo Foscolo ed al suo quesito assillante che riecheggia anche in mezzo a quelle cariatidi fastose. Le quali, non dimentichiamolo, recitano comunque il trionfo della disfatta d’ogni superbia. Una testimonianza di arte su pietra di fronte alla quale stupirono personaggi come Nietzsche, l’Imperatrice Sissi, Hemingway. Guy de Mopassant lo definì “il più sorprendente museo di sculture funebri che vi sia al mondo”. Mark Twain: “Continuerò a ricordarlo anche dopo aver dimenticato i palazzi”.
Motivi iconografici, allegorie speculari, maschere tragiche, ma anche valori di speranza, dove gli angeli hanno la prevalenza. L’àncora che simboleggia la fede, la clessidra il tempo che fugge, gli aspetti emozionali e il mistero. Il “passaggio” visto, qua e là, come metafora del sonno e del riposo. Tutto in maniera indelebile, tra sacro e profano. Quasi un assurdo che stimola l’inconscio, arrovellato nel pensiero di che cosa sia l’ineluttabile e del perché.