Causò 32 morti, 110 feriti e un enorme disastro economico
di AMAR
Dicono che la crociera in mare sia una magnifica avventura. Soprattutto quando si viaggia a bordo di navi moderne, di grandi dimensioni, munite di ogni confort. Per esempio, la Concordia, gigante del trasporto turistico, ammiraglia della Compagnia Costa di Genova. Costruita nel 2005, dalla Fincantieri, per un importo all’origine di 450 milioni di euro, era lunga 290 metri (quanto tre campi da calcio), larga 35 e alta 70 (quasi un palazzo di 20 piani), capienza di 1500 cabine. Insomma, un paese galleggiante, popolato di migliaia di” abitanti”, tra croceristi ed equipaggio. Del naufragio ha parlato Corrado Augias, sere fa in televisione, nel contesto di un ampio racconto dedicato a Genova. La città marinara di Andrea Doria e di Paolo Villaggio, di Fabrizio De André (fu rapito con sua moglie Dori Ghezzi, dalla banda dei sardi), delle monumentali dimore seicentesche e dei vicoli, dei siderurgici e dei “camalli” del porto. Forse però quel sinistro marino, per le dimensioni e l’impatto ch’ebbe sull’opinione pubblica, richiede qualche valutazione in più.
Dieci anni fa, nel pomeriggio del 13 gennaio, di venerdì, la Costa Concordia stava risalendo il Tirreno per rientrare a Savona, ultima tappa di un giro del Mediterraneo. A bordo, la consueta festosa animazione della gita in barca. S’erano fatte le nove di sera e l’Isola del Giglio si intravvedeva in lontananza. Al comando della nave, il Capitano Francesco Schettino, il quale si fece venire la sciagurata idea di omaggiare gli abitanti del Giglio con un inchino. L’inchino è la manovra spettacolare consistente nel far piegare la nave di lato e raddrizzarla subito dopo, per salutare la gente a riva. Così venne ordinato di fare al timoniere: rotazione e ritorno in verticale, quasi fosse un giocattolo di facile manovrabilità. Invece, una inutile e drammatica sciocchezza. E l’urto contro gli scogli aprì lo squarcio omicida, 70 metri lungo la fiancata di dritta, con conseguente allagamento. L’imbarcazione si volse su un fianco arenandosi, in bilico sopra il fondale profondo.
Gravi danni anche all’impianto di illuminazione della nave. Ora, attorno c’è solo il freddo gelido e il buio della notte. Occorre gestire la situazione di straordinaria emergenza. Che all’inizio viene minimizzata, negando la verità nelle richieste di soccorso. E’ di quei momenti il tempestoso colloquio (l’audio fece il giro del mondo) tra Gregorio de Falco, Alto ufficiale della Capitaneria di Porto di Livorno e Francesco Schettino, sceso a terra: Torni a bordo c… E’ un ordine! il grido minaccioso di de Falco. Alle 21,46, scrivono i verbali dell’indagine, avviene la collisione. Breve la distanza dalla riva, ma ben oltre 4000 persone da mettere al sicuro e il pericolo che la nave affondasse considerato possibile. Gli interventi, da terra e dal mare, sono immediati e consentono di portare a Giglio Porto 3190 passeggeri e 1007 membri di equipaggio. Purtroppo, alla prima verifica, mancano all’appello 30 persone. Il bilancio finale sarà di 32 vittime e 110 feriti. Alcuni croceristi umbri presenti sono usciti indenni. Memori per sempre, ma salvi.
In molti conquistarono l’approdo nuotando, accolti subito dalla civile disponibilità dei “gigliesi”, forse adusi alle violenze del mare. Tante le case aperte agli sconosciuti, il Prete che spalanca le porte della Chiesa per l’asilo a quei poveracci tremanti di freddo e di paura, la farmacista subito in allerta per le occorrenze sanitarie, le suore a farsi carico dei più piccoli sconvolti. Una comunità esigua in gennaio, al servizio di così tanti naufraghi all’improvviso, taluni in pigiama, scalzi, bagnati, senza più alcun avere, tutto a loro sottratto dal mostro ora spiaggiato come una smisurata balena, di fronte al porticciolo. E vicino alla statua sommersa del Cristo degli Abissi che forse ci ha messo una mano protettrice, perché la catastrofe poteva essere immane.
La Costa Concordia è ormai un relitto pure ingombrante per i seri pericoli di inquinamento ambientale. L’Isola del Giglio è un presidio turistico rilevante, in quell’angolo del Tirreno. Quindi, la prima operazione riguarda l’asporto delle 2.400 tonnellate di olio, sostituite con l’equivalente di acqua per evitare rischi di destabilizzazione. Poi, il fantasma di enorme stazza va rimosso. Le operazioni vengono affidata ad una Società statunitense. Deve rimettere la Concordia in linea di galleggiamento per poterla trainare altrove. Rappresenta una impresa ardua dall’esito imprevedibile. La perizia dei tecnici riesce a superare ogni ostacolo. Sono passati oltre due anni quando l’operazione ha inizio il 14 luglio 2014. Vengono usati, tra l’altro, degli enormi cassoni posti ai lati dello scafo che riescono a raddrizzarlo. La agganciano a due rimorchiatori oceanici, direzione Genova, per lo smantellamento. La stima dei danni finanziari causati dal sinistro e dalla irresponsabilità della manovra, è stata di circa 1,5 miliardi di euro.
Dodici gli indagati per naufragio ed omicidio plurimo. A seguito del patteggiamento preliminare, l’unico imputato a processo, è Francesco Schettino. Un dibattimento lungo e complesso conclusosi il 31 maggio 2016 con la condanna a 16 anni di reclusione, confermata sino in Cassazione. A maggio prossimo, Schettino, avendo scontato in carcere un terzo della pena, potrà accedere alle misure alternative, diverse dalla detenzione. Secondo il suo avvocato, in Tribunale si è voluto dare alla tragedia un colpevole, invece di cercare la verità. A parere del Magistrato che ha presieduto il Collegio giudicante, è stata una sentenza giusta ed equilibrata. Di tutto quanto accaduto, ciò che resta sono le colpe morali alla base dell’evento e le vittime provocate, soltanto per compiere un gesto eclatante e pericoloso – l’inchino – che la tradizione marinara dovrebbe aborrire.
Ho letto su La Repubblica, un recente servizio dall’isola del Giglio. Dice: Il gigante è ancora qui, non se n’è mai andato. Sparito dagli occhi, resiste nel tempo come certi fantasmi nei castelli. Aggiungo: Testimone invisibile di una tragedia che si doveva evitare.