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Home » Vajont, il piccolo fiume che uccise quasi 2000 persone
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Vajont, il piccolo fiume che uccise quasi 2000 persone

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Di Adriano Marinensi – Sulla Enciclopedia Treccani sta scritto così: Vajont – corso d’acqua (14 km), affluente di sinistra del Piave, nel quale si getta presso Longarone, dopo aver scavato una gola profonda, forse la più bella delle Alpi. Le sue acque sono state sbarrate con una grande diga che ha creato un lago.

Dentro quel lago, 53 anni orsono, il 9 di ottobre, sul far della notte, dal Monte Toc, che faceva da sponda dell’invaso, precipitò una gigantesca frana, sollevando un’onda che corse verso valle e seminò morte e distruzione. La storia d’Italia lo ricorda come “il disastro del Vajont”. Scese, con la sua violenza immane, sino a Longarone, un paese di 5.000 abitanti e ne uccise 1.450. Una massa d’acqua risalì su per il versante di sinistra del lago dove si trovavano due piccoli borghi, Erto e Casso, grumi di vecchie case contadine, facendo altre 158 vittime. In totale il numero dei morti, che non fu possibile quantificare con precisione, venne fissato tra i 1.950 e i 2.000. Tra loro circa 500 bambini. Il più piccolo era nato 21 giorni prima dell’evento.

 
 
 
 

Il progetto del “Grande Vajont” prevedeva lo sfruttamento delle acque montane a fini di produzione d’energia elettrica. All’epoca, (fine anni ’50) la diga era considerata la più alta del mondo e la centrale la più grande d’Europa. Dunque, un’opera gigantesca della quale s’era cominciato a parlare sin dagli anni ’30. La concessione a costruire è del 1946 e parlava di una diga a doppio arco, alta 202 metri, capace di un invaso di 58 milioni di metri cubi, il punto più alto a 679 metri s.l.m. Titolare della concessione la SADE, Società Italiana di Elettricità, fondata, nel 1905 dal Conte Giuseppe Volpi di Misurata, ch’era stato Ministro delle Finanze durante il fascismo. Per il 45%, il costo lo finanziò il Governo. L’inaugurazione ebbe luogo nell’ottobre 1961. Attraverso una variante in corso d’opera, avevano portato l’altezza della diga a 261 metri (un autorevole tecnico disse: “Già il vecchio progetto mi sembrava arduo”), con una base larga 22 e una capacità di invaso attorno ai 170 milioni di metri cubi, per alimentare la centrale di Soverzene.

Intanto, per le perplessità sollevate da qualche geologo, ripresero le indagini sulla stabilità di tutti i versanti del bacino, che produssero relazioni geologiche contrastanti. Qualcuna allarmante. La preoccupazione cominciò a riguardare, sin dall’ottobre 1960, un movimento di terreno sulle pendici del Toc. Non per caso, il nome del monte è, nel dialetto friulano, la contrazione del termine “patoc”, cioè fradicio, marcio. E Vajont potrebbe voler dire “va giù”. Il 4 novembre 1960, ci fu un serio avvertimento: quasi 700 mila mc di montagna s’erano staccati dal Toc e caduti nel bacino, sollevando un onda di 10 metri.

Una giornalista de L’Unità pubblicò alcuni articoli di denuncia, prevedendo pericoli seri e incombenti sulle popolazioni della valle. La denunciarono per “diffusione di notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”. Venne assolta. Anche all’interno della SADE, i timori s’erano fatti incalzanti. Lo storico tecnico dell’azienda (l’ing. Muller) consegnò il suo 15° rapporto sul movimento franoso in atto sul Monte Toc: evidenziava la pericolosità di un piano di scivolamento di circa 200 milioni di mc., rischio che diventava altissimo con un invaso arrivato a quota 712 metri. Mancavano però pochi mesi alla nazionalizzazione dell’energia elettrica da parte dello Stato e quindi meglio non intralciare l’iter in Parlamento. Infatti, nel giugno 1962, il quarto Governo Fanfani s’era fatto promotore di un disegno di legge delega per acquisire allo Stato l’intero patrimonio idroelettrico nazionale. Ed a fine anno, il relativo provvedimento aveva istituito l’ENEL. Quindi, nel luglio 1963, anche la SADE passò all’ENEL, insieme a tutte le ansie e i problemi connessi alla diga del Vajont. C’era in ballo un indennizzo sostanzioso da parte dello Stato. Che già aveva finanziato i lavori per il 45% e quindi l’impianto, per quasi la metà, poteva dirsi già suo.

Ed eccoci arrivati al 9 ottobre 1963. Nella centrale operativa dell’impianto, c’è molta agitazione. Si rincorrono numerose telefonate per via di certi boati e scosse di terremoto, registrati nei giorni precedenti, sul Toc, che stanno ripetendosi pericolosamente. Sono le 22,39 (lo ricorda una lapide) e sul monte si verifica un crollo di terreno della lunghezza di due chilometri. Una massa di roccia e terra, calcolata in 270 milioni di mc, precipita nel lago, ad una velocità di oltre 100 km l’ora. Circa 50 milioni di mc di acqua formano un’ onda alta 150 metri che scavalca la diga. Un “mostro” feroce si incanala lungo la stretta valle sino a Longarone. Scende fulmineo e genera uno spostamento d’aria con un impatto paragonato a quello dell’atomica di Hiroshima. Nulla salva lungo il suo rovinoso cammino, trascina e sommerge cose e case. Un’infinità di corpi restano sepolti dal fango.

Longarone appariva come un apocalittico camposanto. Il Piave, il fiume sacro alla memoria della Patria, restituì molti cadaveri. Giorgio Bocca, ricordando quel terribile giorno, scrisse: “Fu nella luce chiara di un mattino sereno che incominciai a vedere lo spettacolo lunare della Valle dopo il diluvio. Uomini e donne di Longarone Alto andavano per quella landa desolata come dementi”.

Nel novembre 1968, cominciò il processo di primo grado alla ricerca delle responsabilità. Il Pubblico Ministero chiese condanne per il reato di “disastro colposo di frana e di inondazione, aggravati dalla previsione dell’evento e dagli omicidi plurimi”. Fu palese lo scaricabarile, perché, in tanti, avevano la coda di paglia lunga una quaresima. Alla fine dell’intero iter processuale, i giudici emisero pene lievi, anche perché la prevedibilità della frana non venne riconosciuta in sede di giudizio. Tra le cause della catastrofe, una ebbe rilievo giornalistico: proprio l’accelerazione al collaudo della diga, da parte della SADE, in vista della consegna dell’impianto all’ENEL. Ma, anche questa ipotesi non trovò ascolto in Tribunale. Invece, durante l’Anno Internazionale del Pianeta terra (2008), il Vajont fu definito “disastro evitabile”. Rilievo più pesante di una sentenza.

Un fatto certo è che i versanti del lago non avevano le caratteristiche idonee a rendere sicure le sponde e l’innalzamento del livello idrico oltre i 700 metri doveva essere considerato inaffidabile. I tecnici della SADE l’avevano ben compreso, tanto da programmare un abbassamento di almeno 10 metri. Il fatto è che ridurre il livello di un bacino idrico di tanta portata, non è intervento da poter realizzare in poco tempo. Insomma, le origini della sciagura furono molteplici, compresa l’omertà calata su alcuni fatti precedenti la nazionalizzazione. Ad andarci in mezzo, in maniera pesante, furono le genti di lassù, sulle montagne friulane. Che. all’inizio, avevano forse gioito per essere diventate, da contadini col reddito incerto, operai a stipendio fisso. Poi, arrivò l’inferno sulla terra.

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