Un direttore cinese che è anche pianista e un pianista pugliese che è anche direttore d’orchestra. Un chiasma singolare ieri sera al san Domenico per un concerto offerto da Sogepu, Fondazione Cassa di Risparmio di Città di Castello e Banca di Anghiari e Stia, con molti Rotariani nelle prime tre file.
Quel po’ di mondanità che caratterizza non poche serate del Festival delle Nazioni e che si concretizza spesso in sgargianti abbigliamenti femminili e in ritardi inspiegabili sull’orario di inizio della serata. Nonostante in sindaco Bacchetta fosse puntuale al suo posto.
Ha superato felicemente la sua metà di svolgimento la manifestazione tifernate e l’edizione dedicata alla Cina offre un altro interessante scorcio sulle ricchezze di questo immenso continente che anche nella musica comincia a riversare i prodotti della sua programmazione.
Zhang Lu è il direttore designato a condurre l’Orchestra Regionale Toscana, un complesso a cui il festival castellano ricorre con ottimi risultati. E c’è da dire che anche stavolta la formazione che si appresta e traguardare i suoi quarant’anni di vita ha evidenziato le sue caratteristiche di maturità, di elasticità, e di vigore, con fiati che eccellono, dalla famiglia degli ottoni, agli assolo di oboe e fagotto, per non dire della polpa duttile e penetrante di tutti gli archi, Insomma un godimento dirigerla, e il giovane Zhang Lu non ha mancato il trarne il massimo profitto, concertando una Quarta Sinfonia di Čajkovskij che è stata un portento di sonorità e un tripudio di vibrazioni positive. Zhang ha una formazione invidiabile, sia come pianista che come direttore: studi a Mosca, in Finlandia, in Estonia, a Roma, sia come pianista che come direttore. Nella sua formazione appaiono nomi di Gary Graffmann, di Paul Badura Skoda e di Roźdestvenski, e imprese al teatro alla Scala e all’Accademia di santa Cecilia per capire i segreti dell’opera italiana. Esperienze preziose che si traducono in un gesto direttoriale molto personale, praticamente con la bacchetta sollevata a battere ogni quarto. Cosa che però risulta efficacissima nel primo tempo della Sinfonia, che è tutto un ansimare degli archi in “sincope”, e anche nel vorticoso Scherzo “in pizzicato”, battuto a mani nude. Il fatto è che Zheng va dritto alla struttura musicale, non gesticola inutilmente e concretizza una ritmicità ingegneristica, ma travolgente. Anche in quel finale che rievoca una festa popolare Zhang è riuscito a smussare le inevitabili volgarità, uno smaccato bum-bum di timpani con i clangori dei piatti, riconducendo la partitura a un percorso razionalmente dinamico. Il compositore, che proprio non era un allegrone, avrebbe voluto configurare in questa vasta Sinfonia una sorta di lotta contro il “Fato”, un travaglio drammatico annunciato sin dall’inizio dagli squilli di tromba: ma in quello che avrebbe dovuto essere un epico percorso nietzcheano questi ottoni sembrano più che altro la fanfara dei corazzieri, vigorosa e piena di salute. Momenti contrastivi di ciò che l’arte vorrebbe e di quanto in realtà produce.
Nella prima parte della serata l’acustica del san Domenico ha rivelato le sue ben note carenze. Mettere sulla pedana un pianoforte come il Borgato Grand Prix 333, con una corda della grave più lunga di cinquanta centimetri ha voluto dire ingaggiare una lotta senza limiti con ciò che di riverbero produce la chiesa dei domenicani. Il gigantesco strumento del costruttore vicentino, una specie di scafo vichingo, possente ma snello al tempo stesso, era affidato alle mani di un prodigio della musica italiana, il pugliese Francesco Libetta.
Troppo limitativo definirlo pianista e direttore, data la vastità degli interessi di questo ancor giovane artista, versato in un campo vastissimo, che va dal culto del madrigale alla musica da film. Emerso dal Concorso di Miami del 2000, Libetta percorre felicemente tutti i sentieri della musica e si guadagna il titolo di pianista di rarefatta e lucente eleganza. Cosa che non gli impedisce di avere dita d’acciaio capaci di forare la corazza del Rach-2, uno dei concerti più celebri e più stuccosi del grande esule russo. Contrastato da uno Zhenr che forse, sui tempi, la pensava un po’ diversamente da lui, Libetta ha preferito la grinta alla cantabilità e ha domato sia l’orchestra che la tastiera con una volontà senza sconti. Guadagnandosi meritate ovazioni e un bis che finalmente ha fatto sentire la voce espansa del Borgato. Un Debussy-Claire de lune accarezzato con maestria e uno Chopin del valzer-a rotta di collo digitato con perfida bravura.
Stefano Ragni