Domenica sera tutti a San Pietro, non una sedia libera. E pure si sa che sono anche scomode, per non parlare delle panche. Ma visto che la basilica sublacense è la Betlemme della grande musica perugina, abbiamo ancora una volta potuto ben affrontare questa piccola fatica da pastori del Presepe. Anche perchè non si sa quanto ancora i tempi ci consentiranno di meditare il nostro Natale su quel dolcissimo teatro dell’anima che tanti secoli fa San Francesco ci consegnò a Greccio.
Oltretutto la Fondazione Agraria, che pure si fa pagare a buon conio l’ospitalità, tiene chiusi i servizi igienici, causando non pochi disagi ai tanti ospiti, molti dei quali vantano anche una certa età. Ma l’altra sera l’affluenza del pubblico valeva bene tutti i disagi affrontati e ancora una volta i perugini hanno voluto dimostrare il loro affetto a una istituzione che coi suoi settantaquattro anni di attività ci riporta agli anni di Capitini e dell’accesso della città alla democrazia. Portata, è bene ricordarlo ancora una volta, dai soldati della Ottava Armata inglese di cui, finalmente, una lapide posta sul muro esterno della chiesa, fortemente voluta dalla Fondazione Ranieri e dall’Amministrazione Comunale, ricorda impegno e sacrificio.
La sinergia della grande industria, la Fondazione Federica e Brunello Cucinelli con la Fondazione Perugia Musica Classica di Anna Calabro ha prodotto un cartellone che promette molti appuntamenti di rilievo: per Enrico Bronzi è la prima inaugurazione, dopo il suo exploit alla Sagra. Un’età del Bronzo che, si spera, produca alchenicamente una nuova “età dell’oro” e questo concerto della Camerata Salzburg promette proprio bene.
Certo, a pensarci un po’, noi perugini ci stiamo abituando proprio al lusso: appena una settimana fa qui, in questo gioiello dell’architettura romanica suonava la Camerata dei Berliner Filarmoniker, convocata da Omaggio all’Umbria. Ora, a pochissimi giorni di distanza, un tuffo nella storicità della musica mozartiana con una formazione cameristica di una trentina di elementi tra cui spiccano anche alcuni nomi italiani. Salisburgo è oggi la Julliard europea: ci studiano talenti di tutto il mondo e gli insegnanti sono a livello altissimo: tra loro, ci sembra operi anche il nostro Enrico Bronzi. Per chi vanta molte stagioni di ascolto la Camerata, nel corso delle sue apparizioni perugine, ha praticamente segnato tutte le tappe della sua evoluzione, Ricordiamo l’aristocratico Antonio Janigno che la diresse nel 1796. Poi fu l’era del violinista Sandor Vegh, un nome da leggenda che propiziò l’adozione, per la formazione orchestrale, di una mentalità quartettistica: ogni strumentista responsabile del proprio ruolo come se suonasse nella compagine più cara al classicismo austro-tedesco e Mitteleuropeo.
Passano i tempi e si evolvono le mode e gli atteggiamenti di ascolto, ma i Salzburger non si fanno cogliere impreparati. Fin dalle prime battute della ouverture Coriolano di Beethoven, sentivamo i timpani a membrana barocca battuti da bacchette di legno. Il che già di per sé produce un suono secco e tagliente. Ma quelle due trombe a destra della formazione emettevano suoni incredibili, sinceramente mai uditi con tanta chiarezza. E il timbro era di acciaio, una pasta marmorea penetrante, nitida, schioccante. Ci siamo spostati in prossimità ed abbiamo visto che erano trombe senza pistoni. Trombe “ da urlo” perché suonarle così vuol dire approssimarsi, col sorriso, al suicidio. Eppure non una nota fuori posto, non uno “scocco”, ma solo squilli perentori, come neanche Beethoven si sarebbe sognato.
L’orchestra vanta la caratteristica di farsi dirigere da chi gli pare, e stavolta i salisburghese hanno scelto una violinista che, al primo leggio tra archetto e scotimenti di chioma, li ha guidati egregiamente. Si trattava di Stephanie Gonley, Eglish e Schottish Chamber Orchestra, complessi aristocratici che affidano a chi siede al primo leggio le sorti delle loro interpretazioni.
Più che soddisfatti del Coriolano che, suo malgrado, deve emendarsi della pubblicità di un amaro che, per tanti anni ha funestato lo stomaco degli italiani, ecco la sorpresa che Bronzi ha voluto tirare fuori dal cilindro della sua fantasia. Non un pianista solista, ma due pianisti, e dei migliori. Yaara Tal e Andrea Groethuysen, nomi da romanzo di Thoman Mann, li avevamo già ascoltati nel 1996 e ne eravamo rimasti molti colpiti. Ora ci hanno strabiliato. Prima con una doppio Concerto di Mozart, il K 365, il cui ascolto è già di per sé una piacevole rarità. Con una digitazione perfetta i due solisti hanno inanellato scale e arpeggi, profondendosi anche in una cantabilità dolcemente narrativa, trascinando l’orchestra in un vortice di mobilità agile e preziosa. Ma quando, nell’apertura della seconda parte della serata, si sono raccolti in una sola tastiera per suonare il Concerto a quattro mani di Czerny, allora le orecchie si sono come rarefatte per captare la novità. Come si sa Carl Czerny, è l’autore di musica pianistica più odiato dagli esecutori di tutte le età. Con oltre ottocento opere didattiche ha funestato le giornate di milioni di aspiranti pianisti, invalidandone non pochi. Chi è sopravvissuto, poi, si è trovato davanti Clementi. Da un ferroso maestro della didattica, però, sono scaturite non poche pagine di straordinaria eleganza, come questo concerto a quattro mani, con un’orchestra squillante e i due esecutori impegnati a sciorinare scale infinite di semicrome. Pure, sotto la proterva anima di educatore, c’era un gusto sopraffino di una giovane che sapeva dare del tu a Beethoven, che era in grado di glissare Clementi e che si buttava, al pari dei contemporanei Hummel e Field, tra le braccia di Rossini. Si, proprio lui, il sornione pesarese, felice di sentire le sue aeree cabalette e le sue soavi cavatine trasformate in gorgoglii pianistici di assoluta purezza.
Felicissimi di esserci goduti una tale delizia, esposta con tanta magistrale serietà, il ritorno alla sinfonia Haffner di Mozart è stato il premio alla nostra pazienza. Qui una scorrevolezza, una affabilità, l’humus di un senso ilare della vita, di una mobilitazione del sorriso, per risolvere ogni questione della nostra esistenza. Impareggiabili i salisburghesi a suscitare elettricità dai loro leggii, con quelle trombe che non dimenticheremo mai, e questi violini frementi, la dimostrazione di come si possa essere eleganti anche nella energia più sfrenata. Ricordiamoci che questa nobile orchestra venne fondata da Bernhard Paumgartner, uno dei grandi divulgatori della memoria mozartiana. Oggi, anche dopo Amadeus, ascoltare i Salzburger, è comunque un ritorno alle origini.
Stefano Ragni
(Foto di Adriano Scognamillo)