Il Trio di Parma come il Trio di Trieste. Anzi, forse, di più, perché gli standard esecutivi oggi si sono talmente alzati che il violino di Ivan Rabaglia, che suona un Santo Serafino, Venezia, 1740, della Fondazione Pro Canale, riassetta in larga misura le emissioni acustiche di Renato Zanettovich.
Come il pianismo di Alberto Miodini, versatile, fantasioso, stravagante ed estroso, si caratterizza anni luce dalla compassata e Mitteleuropea misura di De Rosa. Niente poi di paragonabile alla leonardesca e sontuosa arcata di Enrico Bronzi, un violoncellista che fa del suo cognome l’emblema di cosa sia realmente una cavata possente e sensuale.
Non è naturalmente una questione di primati e di sorpassi. È che i tempi sono cambiati, e oggi, dagli esecutori si vuole qualcosa di più, una forma di comunicazione che non sia accademia, ma coinvolgimento consapevole, condivisione e partecipazione.
Eppure il Trio di Trieste è stato uno dei complessi prediletti dagli Amici della Musica che lo ha vezzeggiato in ogni modo, facendogli suonare di tutto, da Beethoven a Ravel. Mettendoli spesso a confronto col coevo complesso, il Trio Beaux Arts, che era una formazione americana con standard altissimi e una frizzante versatilità.
Una volta poi, nella monumentale Galleria Nazionale dell’Umbria ci fu un accostamento Trio di Trieste e Quartetto Italiano: non si parlava, allora, di Made in Italy, ma si trattava di eccellenze di cosa si produceva di internazionale nel Bel Paese.
Oggi il Trio di Parma ha sbaraccato un po’ tutti. Discende dalle costole del Trio di Trieste, ma lo ha superato in umori ed estri.
Dopo la vittoria al Gui di Firenze, e l’affermazione a Melbourne, si è preso il Premio Abbiati della critica musicale nel ’94.
Da allora ha percorso le strade del mondo in un crescendo che non ha ancora il suo climax.
Ieri pomeriggio, a pioggia battente appena estinta, il teatro Cucinelli risultava accogliente come un presepe, riparava dalla umidità e offriva una nicchia di umanesimo militante. L’ideale per godersi un concerto che era stato preceduto dal lancio, in una notissima rivista musicale, del programma proposto, due Trii di Dvorak.
La polpa di cui è dotato il complesso parmense è risultata la tinta più idonea per riprodurre due pagine che appartengono al repertorio boemo, una nicchia della vecchia Europa, qualcosa di periferico al grande Impero Asburgico, ma cuore palpitante di idealità e di tensioni che appartengono alla storia del languente continente e ne arricchiscono il patrimonio. Dvorak sarà pure il musicista del “terzo stato”, ma dell’umore popolare è partecipe come lo sarebbe, oggi, un antropologo scientificamente motivato.
Affrontando il dittico di Dvorak i parmensi hanno rinnovato quel che, negli anni Settanta Ripellino realizzò con la stesure di prose e poesie come le “Storie del bosco boemo” e “Lo splendido violino verde”.
Ma non è l’amore, piuttosto facile a dire il vero, per la Praga Magica dell’imperatore Rodolfo e per la Praga d’oro di Hrabal, proiezioni alchemiche del pensiero fantastico. Nella musica di Dvorak parla il popolo, quello della Selva Boema, contadini, pastori, reietti della società, che hanno la loro voce piena di passione, di idealità, di sogni. Spesso turbati dalle apparizioni della Rusalka, fanciulla-crisantemo che succhia le anime degli uomini infedeli.
Dvorak fu l’interprete di un popolo che confinava, a oriente, con gli Sciti, ma che pensava europeo e pregava in latino. Di qui una miscela di suggestioni orientali, ma la saldezza di una condivisione di quei valori che rendevano coeso l’Impero Austroungarico. Quando scrisse il primo trio che abbiamo ascoltato, l’op. 21, nel 1874, l’autore era appena stato segnalato da Brahms che certamente aveva percepito il denso respiro della foresta boema che Dvorak aveva saputo evocare, sotto il suo disegno turgido. La lezione del maestro, Brahms, appunto, era lontana, ma la prospettiva era quella: far parlare il muschio del bosco e le sue creature sotterranee e notturne. Quando poi, nel successivo Trio Dumky op. 90 la maturazione è avvenuta, ora si tratterà, per l’autore, di dare voce ai contadini, agli abitanti della selva, che si esprimono con le loro movenze di danza, rievocando una infinita malinconia. Il Trio Dumky è possente, è anima, è sangue vissuto. E chi meglio di loro, i tre parmensi, poteva raccontarcelo con tutta l’epica necessaria? Difficile ascoltare di meglio, per spirito evocativo e per tratto passionale.
Il pubblico percepisce la potenza del gesto esecutivo e applaude fino a ottenere due repliche. Un pezzo di Schumann di rarissima fattura e un Adagio di Brahms di lusso.Siamo tutti contenti di questa collaborazione tra Amici della Musica di Perugia e Fondazione Federica e Brunello Cucinelli, che preserva la musica di qualità dai pericoli della penuria di risorse economiche. In un contesto nazionale in cui sembra che la parola ricorrente sia: sopravvivere.
Stefano Ragni