di Adriano Marinensi – E’ tornato, a Terni, come ogni anno e da tantissimi anni, il Cantamaggio, la manifestazione folcloristica sopravvissuta alla modernità con la forza (e la conferma) del consenso popolare. L’ultimo giorno di aprile e il primo di maggio, si celebra l’amore, la primavera e la festa del lavoro. Nell’edizione 2017, ha voluto aggiungere un omaggio alle donne: la sfilata dei carri allegorici è stata preceduta da un quadro di storia operaia della città. L’artista Lucilla Galeazzi ha guidato un coro, con le nipoti delle “tissitore”, e riproposto il “canto delle cinturinare”.
Chi furono costoro? Le cinturinare furono le lavoratrici di una vecchia fabbrica tessile, vissuta sino ai primi anni ’70 del ‘900. Il loro fu un canto di protesta e di passione, testimone dell’orgoglio di lavoratrici pronte a sfidare il potere padronale per tentare, quasi sempre senza successo, la difesa dei propri diritti di donne e di operaie. La narrazione ci dice che quelle contestazioni “raramente passavano attraverso le organizzazioni sindacali”, ma venivano gestite in forma autonoma e spontanea. E le fecero etichettare come “operaie ribelli e chiassose”.
Verso il 1880, arrivò, a Terni, un genovese ardito. Si chiamava Alessandro Centurini, aveva 50 anni e il bernoccolo dell’imprenditore. Come per altri capitani d’industria, l’elemento di attrazione fu la disponibilità di forza motrice idraulica. Si sa che il salto d’acqua della Cascata delle Marmore è stato, a cavallo dei secoli XIX e XX, il “motore dei motori”. E quindi il fondamento del processo di industrializzazione di questa parte dell’Umbria: un passaggio di confine tra l’economia agricola e aziendale. Alessandro Centurini si procurò la concessione di 8 metri cubi d’acqua al secondo, derivati dal Canale Nerino, per realizzare – nel 1886 – una fabbrica destinata alla produzione di manufatti in pezza. Lavorava, con macchinari d’avanguardia, la juta proveniente dall’India e produceva sacchi da imballaggio (durante il periodo dell’autarchia fascista, la juta fu sostituita dalla ginestra). Cominciò l’avventura in grande stile, con 300 telai e 1300 addetti. Anzi, addette, perché la manodopera era quasi tutta al femminile (tranne i “capi”).
Alessandro Centurini divenne Deputato del Regno. Si racconta di una sua campagna elettorale basata sullo slogan: “Volete i quattrini? Votate Centurini”. L’elezione, il giorno dopo, procurò alle operaie una uscita premio dalla fabbrica. Il periodico “La Turbina” la definì “la processione della miseria”. Usava atteggiamenti da dominus, ma è entrato ugualmente tra i benemeriti dello sviluppo locale, insieme a Stefano Breda, Benedetto Brin e Cassian Bon, le “Tre B” del miracolo economico. Lo Jutificio Centurini, ancora nel 1927, occupava 1500 operaie ed era al 2° posto in Italia, per capacità produttiva nel settore. Nel 1932, divenne Società anonima e – tra alterne vicende – andò avanti sin quando i prodotti di juta uscirono dal mercato. Furono perduti centinaia di posti di lavoro e le “cinturinare” divennero “personale impossibile da riconvertire”.
Della grande fabbrica purtroppo non resta nulla, tranne le testimonianze iconografiche. Danilo Stentella ha scritto: “E’ stato smontato e disperso un immenso patrimonio di archeologia industriale , unico nel suo genere nel Centro Italia”. A proposito delle “cinturinare”, Mirella Pioli ha spiegato: “Erano donne e fanciulle di campagna, attratte dalla sicurezza che il lavoro nella fabbrica della juta offriva”. Per questo sopportavano “fatica, insalubrità degli ambienti, uno stipendio da fame”. Si doveva scegliere tra il rispetto di sé stessi e il pane quotidiano. Poco il tempo libero, soprattutto per chi abitava nei paesi della periferia. La giornata si consumava tra le ore in fabbrica, una dozzina, ed altre per andare e venire da casa. C’era, a Terni, un’altra impresa tessile, il Lanificio Gruber, dove le condizioni del lavoro si dicevano migliori, però non di molto. Quelle operaie ebbero fama per aver organizzato il primo sciopero spontaneo, nel 1884. Mentre delle “cinturinare” è rimasta negli annali l’astensione del 1901, durata un mese intero.
Non ebbero timore di passare per “sovversive”, loro che, nella Terni di quel tempo, dovettero fare i conti con i preconcetti di una opinione pubblica abituata a considerare il lavoro nell’industria come una prerogativa maschile. Si imposero quali antesignane delle lotte per il riscatto dalle sopraffazioni. Vanno considerate simbolo di una esperienza che, a pieno titolo, rimane momento singolare si, però appartenente alla tradizione operaia della città. Il poeta Furio Miselli scrisse un “epigramma” in dialetto intitolato “Quanno scappa Cinturini”. Una strofa dice: “Se che pezzi de jenotte (giovanotte), se che stacche, che guirriere, se che belle tommolette, sverde come bersajere, e so’ linde, so’ elegante, a la moda tutte quante”. Perché, lo stare in fabbrica richiedeva un minimo di distinzione estetica, troppo spesso però mortificata dalla grevità dello strapazzo.
Le testimonianze riferiscono anche di un clima litigioso e talvolta turbolento all’interno dei reparti, alimentato dall’analfabetismo dei borghi di provenienza. Dove le mani si usavano per lavorare la terra, mica era necessario sapessero scrivere. Al tempo d’inizio dell’industrializzazione, molti problemi di carattere sociale li crearono gli “immigrati” e le difficoltà di integrazione. Nei loro confronti si poetava (sempre in dialetto): “So’ capitati qui ch’era de notte come quillu che rubba, muru, muru, pe’ nun fasse vedé perché era scuru, l’untu, le pezze e le fangose (scarpe) rotte.” L’operaio – scrittore Alessandro Portelli parla di una Terni “contadina, paesana, vernacola, dei vicoli e degli spiazzi”. E Miselli: “Era casa tua piazza e la strada…” Insomma, una comunità dei primi lustri del ‘900, ancora prigioniera di una organizzazione sociale pesante negli ambienti di vita e di lavoro. Eppure, il primo Governatore regio definì Terni la Manchester italiana e, poco avanti, Mussolini, la città dinamica.
Nella tradizione legata al ruolo della donna ed al rapporto con la fabbrica, accanto alle “cinturinare”, stanno le “portapranzare”. Il profilo lo tratteggia ancora Portelli: “Mettevano il portapranzo dentro una canestra grande, se la mettevano sopra la testa e portavano ciascuna dieci, dodici pasti”, destinati ai lavoratori dell’Acciaieria, quando ancora la mensa aziendale non era entrata tra i diritti acquisiti. Per quei metalmeccanici ante litteram, s’usava il “portapranzo”, un recipiente simile alla gavetta del soldato al fronte. Il clima di tale epoca – che sembra preistoria e invece è solo cronaca passata da meno di un secolo – è riecheggiato per le vie di Terni, con il “canto delle cinturinare”, forse generando anche qualche commozione. Il ritornello intona: “Semo de Cinturini, lassatece passà; semo belle e simpatiche, ce famo rispettà”.