di Adriano Marinensi- C’è, a Terni, nelle vicinanze della città, un monte di media statura chiamato Colleluna o Colle della luna. Il nome, dicono, viene da lontano e deriva dal fatto che, di lassù, la luna si vede meglio che dal fondo valle, dove spesso l’atmosfera greve e inquinata ti proibisce di guardare le stelle. In cima sta una torre antica, tanto antica da far parte della storiografia locale.
Fu arcigno presidio militare a guardia dei nemici di Terni, che – intorno al 1400 – potevano arrivare soprattutto da Cesi, da Narni e da Spoleto.
Di essa e delle vicende combattutele attorno, si racconta in un volume firmato da Girolamo Medori, il quale, nella narrazione si avvale di una pluralità di fonti. Si era al tempo quando le famiglie nobili avevano in mano il potere. Verso la metà del secolo XV, alle falde del Colle della Luna si combatté una battaglia. Il territorio di questa parte dell’Umbria apparteneva allo Stato della Chiesa; Guelfi e Ghibellini se le davano di santa ragione e pure i contrasti tra le città si definivano a colpi di spada. Governava Terni un Rettore pontificio ed è lui che riferisce al Papa i fatti accaduti a Colleluna. Sostiene che “Terni, città ribelle, ha dichiarato di sentirsi libera in tutto e per tutto, dalla soggezione della Curia romana”. Dunque, “libertatem asserens se habere”. Di più, contro alcuni fanti che recavano le insegne della Chiesa, i ternani uscirono all’assalto, oltre ad imprigionare il Messo recante le ingiunzioni papali.
Si finì allora allo scontro. Stando al suddetto resoconto fatto al Pontefice, nella battaglia di Colleluna, “i Vostri (i papalini) erano una ventina di cavalieri e una cinquantina di fanti, i ternani 35 o 40 cavalieri e più di 300 fanti bene armati”. Ovviamente prevalsero quelli che “issavano le bandiere del Comune al vento”. Il Rettore, rifugiatosi a Sangemini, si prese poi la rivincita ristabilendo, almeno in parte, ordine e disciplina tra i sovversivi di Terni, che “almeno da 50 anni, non si trova – ancora il Rettore – che abbiano obbedito in qualche cosa, se non nel pagamento del censo richiesto”. Il soldo si, però in autonomia: stirpe sediziosa ! Per semplice inciso, si può aggiungere che, ci fosse stato allora tra quei Cavalieri (di ventura), l’ex Cavaliere nostro, i ternani li avrebbe definiti i soliti comunisti.
C’è un altro episodio di ribellione nel libro che mi ha fatto da guida. Nell’anno 1387, a Colleluna governava un Castellano, tale Giulizio da Bracciano. Si mise a fare il recalcitrante pure lui, però verso il Comune di Terni che gli passava lo stipendio. Annota il Silvestri nelle Riformanze, che i Priori decisero di riconquistare la Rocca “con tutti i mezzi di valida difesa e ad ogni costo”. Quell’ad ogni costo, il Consultore Andrea di Giannuzio probabilmente lo prese alla lettera e “si credette autorizzato – racconta il Silvestri – di raggiungere lo scopo con artifizio”. C’era disponibile alla fellonia tale Pietro di Silverio d’Amelia, che godeva della piena fiducia del ribelle. Si prese, in compenso, 300 fiorini d’oro e con l’inganno la Rocca tornò “in libero potere del Municipio”. Intorno a Terni ce n’erano altre di Rocche: Papigno, Perticara, Monte S. Angelo, Valle Fava, S. Zenone, S. Giovanni, ciascuna retta da un Castellano, con stipendio e relativi famuli.
Nella storia della Rocca di Colleluna, se ne intreccia un’altra. Riguarda Braccio da Montone. Questo Capitano di Ventura, il Silvestri lo descrive così : “Era Conte di Perugia, illustre per armi e per avventure guerresche”. Aveva occupato mezza Italia e “anco Terni dové piegare la fronte al prode e temuto venturiero”. Con il Consultore Andrea di Giannuzio non fu per niente prode. Lo attirò con la ciurmeria alla Rocca di Colleluna, venuta in suo possesso, insieme ai tre figli e li uccise tutti. Contro il truculento Braccio intervenne di li a poco la nemesi. Uno degli storici sostiene che, mentre giaceva ferito e prigioniero durante la Battaglia dell’Aquila e i medici lo stavano curando, ci pensò Andrea Giannuzio a vendicare il nonno. Si introdusse al capezzale, “con stupor di tutti, prese la mano di quel chirurgo e con il ferro che aveva in mano, gli fece passar più volte il cervello”. E Braccio ci rimase stecchito. Altri storici registrano in modo diverso la sua fine. “Ferito nella collottola”, cadde da cavallo, venne portato nella tenda dei suoi nemici e, “avendo già passati tre giorni interi senza mangiare, né bere, né parlare, morì”-
Dalle nostre parti, Terni e Cesi stavano spesso sul piede di guerra. I Cesani, difesi dagli Spoletini, si presero l’umbro Bartolomeo d’Alviano come Capitano generale. Costui andò all’assalto della città di Terni con 10.000 armati e dovette fare i conti con la solita Rocca di Colleluna, un baluardo difficile da superare. Si legge nel volume di Medori : “Era la torre fortificata dall’arte e dalla natura. Le girava attorno una corona di merli, di mole massiccia e di spessore notevole.” Dalle torrette, gli arcieri potevano, ben nascosti, scagliare le loro frecce sugli assedianti. E ancora: “Nella base speronata e fabbricata a grosse pietre, sporgevano cannoni chiamati spingardelle, spazza campagna, di piccola portata”. Difficilmente valicabile, il fossato di 6 – 7 metri, con sopra il ponte levatoio. Si è pure parlato e scritto di “un lungo viadotto sotterraneo che conduceva all’abitazione del Castellano e riusciva alla Piazza maggiore di Terni”. Ma, nessuna traccia documentale è stata rinvenuta.
Dunque, la Torre di Colleluna è finita sui libri della storia di Terni e del territorio dove primeggiavano e battagliavano, nei secoli XIV e XV, oltre a Terni, anche Narni, Spoleto, Sangemini, Cesi ed altri centri minori. Di quella poderosa fortificazione difensiva e del suo passato glorioso, oggi rimane una vaga testimonianza. Sta, a buon titolo, tra i retaggi di un periodo quando i conflitti armati tra le fazioni avevano a motivo il predominio. imperavano i mercenari al soldo dei potenti e i tradimenti, le ruberie, i saccheggi non erano affatto eventi straordinari. Ne facevano le spese le popolazioni inermi, costrette ad un vivere di fatica e di sacrifici. Insomma, come al solito, tempi duri per i troppo buoni.