di Adriano Marinensi – E’ diventata quasi una prassi per me introdurre un tema inseguendo una data, una ricorrenza. Allora, ecco gennaio, il 30 del 1948: un fanatico indù uccide a Nuova Delhi, in India, Mohandas Karamchand Gandhi, noto al mondo come Mahatma (grande anima) Gandhi, definito anche l’Apostolo della non violenza. Una vita vissuta in difesa della pace e dell’indipendenza del suo Paese che lo riconobbe Padre della Nazione. Il giorno della sua nascita – 2 ottobre – è stato dichiarato dall’ONU giornata mondiale della non violenza. Ha gettata una luce nella notte buia delle due guerre mondiali del XX secolo. Molti altri sono stati gli apostoli moderni della pace: dall’umbro Aldo Capitini, a Martin Luther King. Hanno lanciato un grido di responsabilità verso i grandi della politica, custodi di arsenali minacciosi e in grado di causare disastri irreversibili.
Adesso andiamo altrove. A parlare ugualmente di pace, facendo riferimento ad alcune norme giuridiche fissate per garantirla. Innanzitutto l’art. 11 della nostra Carta Costituzionale che pone una questione fondamentale quando afferma che L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Quel verbo ripudia dà il senso del rifiuto verso ogni ricorso alle armi e mostra il credo nella pacifica convivenza internazionale. Prevede l’articolo anche le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni. Ed indica la Costituzione, l’eccezione a quel ripudia. E’ sancito nell’art. 52: La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Significa che, in caso di aggressione, la legittima difesa è consentita. Ci sono inoltre da considerare i tempi diversi e gli impegni politici diversi tra differenti epoche storiche, assunti dal nostro Paese. L’art. 11, pur rimanendo fermo nella sua formulazione ideale e legale, va raccordato con gli accadimenti intervenuti negli ultimi 70 anni. Attraverso l’uso corretto di una interpretazione adeguatrice.
Dunque, il ricorso alle armi – per il combinato disposto (così parlano i cultori del diritto) degli artt. 11 e 52 – diventa un dovere civico per respingere l’attacco da parte di un aggressore esterno. Quel potere di legittima difesa potrebbe valere anche in caso di attacco preparato e sicuramente imminente. Non è quindi la nostra una dichiarazione di neutralità assoluta, perché non sono esclusi neppure i vincoli di appartenenza ad organismi sovranazionali creati per rimuovere situazioni di pericolo per la pacifica convivenza. Per esempio, l’appartenenza all’ONU (ci siamo entrati nel 1955) e l’assenso all’art.2 del suo Statuto: Tutti i membri debbono astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza.
Il discorso mostra qualche complicazione quando si tratta di interventi di tutela dei diritti umani nel territorio di altri Stati sovrani. In tal caso la legittimazione può essere contenuta nell’atto decisionale dell’appena citata Istituzione internazionale. Così l’azione antiterroristica di fronte ad una minaccia grave. Può valere da esempio, l’attacco dell’11 settembre 2001 agli USA, considerando inoltre il contrasto ad organizzazioni con evidenti scopi aggressivi.
La guerra rimane pur sempre il segno del massimo degrado d’ogni sentimento e d’ogni giustizia. Quindi, nelle controversie tra soggetti di diritto, il ricorso alla forza va adottato soltanto dopo aver percorso tutte le vie diplomatiche possibili. Scrive Primo Levi, in un proscenio di violenza: Considerare se questo è un uomo! Che lavora nel fango! Che non conosce pace! Che lotta per mezzo pane! Che muore per un si e per un no. A coloro che inseguono il potere ad ogni costo, Georges Bernanos, ne “Il diario di un curato di campagna”, dice: Le piccole cose hanno l’aria di nulla, ma ci danno la pace. Il contrario della pace sono le aberrazioni che si chiamano campi di sterminio oppure le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Questi orrori finiscono per legittimare, oltre il limite imposto dal diritto, qualsiasi azione che serva a “cementare” le garanzie della non violenza. Persino la guerra giusta, seppure sia strumento che collide con il principio di pace, però quando serve a frenare gli oltraggi all’umanità, una qualche attenuante la riceve.
E come si fa a non parlare di pace in Umbria da dove sono partiti i più alti messaggi di fraternità dei grandi Santi. Con la voce e l’esempio di Francesco, Benedetto, Rita, Chiara, Scolastica, Valentino e altri “eletti”. Ad Assisi, si è parlato più volte di pace universale con la voce di rappresentanti autorevoli d’ogni fede. Va ricordato l’incontro interreligioso, promosso nell’ottobre 1986 (richiamato venti anni dopo, nel 2016) da Giovanni Paolo II che coniò, nell’occasione, il termine spirito di Assisi per indicare il modello di dialogo e confronto, al fine di assicurare al mondo concreto e duraturo sviluppo. E’ del 1961 la prima Marcia della pace Perugia – Assisi inserita ormai tra le manifestazioni pacifiste di straordinaria partecipazione.
In ogni angolo dell’Umbria si attraversa la storia mistica che alimenta il divenire di quanto di umano è custodito nei borghi, nelle pievi, sui colli, lontano dall’urbanizzazione selvaggia delle metropoli, dove i conflitti quotidiani, le costrizioni misantropiche, l’assenza di concordia sociale inasprisce i rapporti e bandisce la cultura dello stare insieme civilmente. Ovunque l’Umbria custodisce – insieme alle tradizioni – testimonianze di un’arte sacra che parlano di bellezza e di serenità, mischiate ad una natura ammirevole e che volgono l’animo verso sentimenti di concordia, espressi, nel passato, da popoli operosi e custodi gelosi del loro pensiero di pace.