Di AMAR
La prima parte di questo articolo merita poco spazio. Però la notizia è singolare e curiosa. Questa: Il mercato italiano delle lumache è in crescita. Beh, in una congiuntura economica calante, che ci sia qualche settore produttivo in crescita, fa piacere. Meglio specificare subito che si tratta di molluschi che definiamo lumache nel linguaggio comune, però nell’italiano corretto, si chiamano chiocciole, le sole commestibili, quelle che vanno in giro portandosi la casa appresso. Se appena sfiori loro le corna, rincasano veloci e, se avessero la porta, te la sbatterebbero in faccia.
Dunque, le chiocciole prodotte dagli elicicoltori italiani, in quasi 900 allevamenti, ammontano ad oltre 40.000 tonnellate, per un giro di affari calcolato in 300 milioni di euro. La chiocciola sarà pure sinonimo di lentezza, ma sul mercato va forte, pare con ulteriori potenzialità di sviluppo. Secondo i modi di dire, fa vita da chiocciola chi se ne sta molto spesso chiuso in casa; mentre mutare le noci in chiocciole significa fare uno scambio poco vantaggioso e se cammini lentamente, i francesi ti dicono marcher comme un escargot. Oltralpe le escargot, cucinate a la bourguignonne, sono un pasto prelibato in uso nel gota della ristorazione. A molti, il solo pensiero di toccare la bava delle chiocciole fa rivoltare lo stomaco: non sanno che se ne fa un rilevante uso in cosmetica e nella preparazione di alcuni medicinali.
Me lo ricordo quand’ero bambino e vivevo in campagna, che appena la pioggia estiva rendeva umida la terra, ecco le chiocciole uscire dai nascondigli e noi, con il secchiello dei giochi, a cercarle numerose tra l’erba. La raccolta era un gioco; per la nonna un pasto da cucinare con perizia, dopo una lunga fase di “spurgo” nell’aceto per eliminare bava e altre impurità. L’arte culinaria stava nel saperle condire con un sugo sfizioso, insaporito da numerosi aromi, tutti naturali. Pasto povero, allora, le chiocciole, ma assai succulento. Più avanti, la tradizione dell’andare a chiocciole s’è spenta, forse perché non c’erano più nonne disponibili a voltarle e rivoltarle nell’aceto, una pratica lunga e grossolana nient’affatto gradevole. Le chiocciole, inzuppate nel saporoso intingolo, finirono sulla mensa di rare trattorie agresti. I gusti mangerecci si orientarono altrove, persi nella miriade di offerte disponibili nei supermercati. Ora, il ritorno alla grande delle chiocciole a centrotavola mi rallegra, pur se trattasi di molluschi d’allevamento e non più raccolti sui prati e negli anfratti dei muretti del contado. Pazienza, vuol dire che metterò l’antica (e gioiosa) pratica tra gli altri ricordi sbiaditi del tempo lontano, quando ero nato da poco. E’ anche questo il progresso, bellezza!
La battaglia di El Alamein
Proseguo con una inversione di tema a testa coda. Perché, il mese attuale richiama un evento rilevante per la storia del XX secolo che merita un ricordo. Nel novembre 1942, ad El Alamein, in Egitto, le truppe tedesche, sino ad allora apparse quasi invincibili, subirono una pesante sconfitta da parte degli inglesi. L’altra, lunga e gigantesca battaglia, che orientò le sorti del conflitto, a scapito di “baffino” Hitler, si combatté a Stalingrado, tra il Don e il Volga, dall’estate 1942 all’inverno 1943 e fece oltre un milione e mezzo tra morti, feriti e dispersi nel gelo della neve.
Nel Nord Africa (la guerra del deserto), le ostilità erano iniziate durante il 1940 e andarono avanti, tra alterne vicende, sino al 13 maggio 1943. Gli italiani, guidati dal maresciallo Rodolfo Graziani, erano stati sconfitti a Sidi El Barrani dalla Western Desert Force inglese; Hitler allora decise di inviare in soccorso l’Afrikan Korpus, insieme alla 15. Panzer Division, al comando del generale Erwin Rommel. Il peso dell’arduo confronto lo subì il contingente britannico del generale Bernard Montgomery che aveva nelle sue file australiani, indiani, neozelandesi. Gli americani erano impegnati massicciamente contro i giapponesi dopo Pearl Harbor (17 dicembre1941); però ai britannici, in Africa, non fecero mancare armi e mezzi corazzati. Così, Montgomery fu in grado di mettere in campo un notevole potenziale bellico, con in più notevoli scorte di benzina e di viveri. Diversamente dai tedeschi che, nella loro avanzata sino alle porte del Cairo, si erano allontanati dalle basi di rifornimento.
La decisione di passare al contrattacco, Montgomery la prese nell’ottobre 1942 forte degli oltre mille cannoni che spararono a lungo sulle linee nemiche. Poi, assaltarono con decisione ed El Alamein divenne, per i tedeschi, una disfatta, malgrado l’eroico comportamento degli italiani della Folgore. Si combatté sul fronte di El Alamein, con inaudita violenza – sostengono gli storici – dal 23 ottobre al 5 novembre 1942. Alla fine, le perdite, per entrambi i contendenti, si calcolarono con grandi numeri: tra morti, feriti e dispersi, gli inglesi lasciarono sul campo 13.000 uomini e i tedeschi 30.000. Per una sola e breve battaglia, di sicuro fu la strage.
La telenovela della Terni-Rieti
Ed eccola l’ultima “sbandata tematica”, però di segno positivo, felicemente connessa alla cronaca di questi giorni. A noi umbri, ci riguarda da vicino. Si tratta dell’ultimo “annuncio solenne”, relativo alla telenovela (un po’ pagliaccia) della superstrada Terni-Rieti: L’arteria (nata poco dopo la metà del secolo scorso) sarà ultimata entro l’estate del 2020. Parola di ANAS (e ANAS, come Bruto, è “uomo” d’onore). L’anno che comincia per 20 e finisce per 20 par che sia quello fatale. Se non fosse che nel passato più o meno remoto, di pronunciamenti tal quali ce ne sono stati più d’uno, la speranza d’essere arrivati in fondo alla via la si potrebbe definire incrollabile. Finalmente potremo percorrere la settantina di chilometri da Terni a Rieti e ritorno, in tempi brevi. Nino Manfredi, parlando in vernacolo ciociaro, avrebbe detto: Fusse che fusse la vorda ‘bbona!
Una conclusione telegrafica come un’appendice. Riguarda l’articolo che ho scritto in precedenza sotto il titolo: La ricchezza che crea ricchezza e non posti di lavoro. Cioè, quella che giace nei forzieri e poco contribuisce allo sviluppo delle comunità attraverso investimenti produttivi. Una autorevole indagine, pubblicata l’altro ieri da un Istituto specializzato, informa: “Negli ultimi 5 anni, il patrimonio dei Paperoni del mondo ha raggiunto gli 8500 miliardi di dollari, con un incremento di oltre il 34% ed ha messo a segno un rendimento pari a circa il 18%. Così non va proprio bene. Soprattutto in Italia che ha enorme bisogno di ripartenza sociale attraverso una finanza produttiva che faccia da moltiplicatore della crescita economica ed occupazionale.