di Adriano Marinensi – Oggi andiamo sul leggero con una noterella senza pretese. Che parte da un interrogativo elementare. Non quello dell’uovo e della gallina, invece dall’altro: è nato prima l’ascensore o il grattacielo? Se la risposta sulla nascita dell’uovo e di chi lo ha covato, la scienza non l’ha data ancora, si può dire che il grattacielo e l’ascensore siano coetanei. Addirittura gemelli. Costruire uno skyscraper senza lift sarebbe stato impensabile. Anche se i grattacieli di originaria generazione erano di dimensioni modeste, arrivare all’attico, salendo a piedi, diventava una impresa da scalatori. Quindi, dobbiamo concludere che contenitore e contenuto abbiano la medesima età.
Del “veicolo per ascendere” non c’è stato alcun bisogno nei vecchi casolari, quasi tutti strutturati con la scala esterna, il piano rialzato e la stalla sottostante. Andare a dormire non era arduo e la gamba abbastanza allenata a recarsi con i piedi nei campi, talvolta lontani; oppure al mercato per buscarsi qualche soldo dalla vendita dei prodotti dell’orto e del pollaio. Oggi, nei cosiddetti agglomerati urbani (agglomerare, suggerisce il dizionario, significa ammassare, ammucchiare), il grattacielo rappresenta la struttura edilizia prevalente e l’ascensore lo strumento sine qua non.
Talvolta, di ascensori ce ne sono più di uno. Non potrebbe essere altrimenti. Pensiamo ai “grandi campioni” d’altezza come il Burj Khalifa, il vincitore attuale, che si trova a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti: è composto di 163 piani, l’ultimo abitato tocca i 585 metri. Sul podio, a parità di merito tra loro, troviamo i cinesi Financial Center e Shanghai Tower; anche per loro l’attico si trova a 584 metri e sono composti di 128 piani. Nella classifica di questi papaveri alti, alti, se ti chiami Almas Tower, 363 metri e 68 piani, finisci al 40° posto. Esistono ascensori che salgono ad una velocità che raggiunge i 30 chilometri l’ora. La vita quotidiana di chi alloggia in cima è un permanente saliscendi tra livello del mare e alta montagna, vita segnata da un viaggio non breve dalla base all’altezza del condominio. Che, per riunirsi in assemblea, gli toccherà prendere in affitto uno stadio di calcio.
Non è di certo agevole neppure il campare laddove i piani sono una trentina e gli ascensori soltanto un paio. Spesso affollati da persone abitanti insieme che manco si conoscono. Al massimo buongiorno e buonasera. Pressappoco come sull’autobus e sulla metropolitana nelle ore di punta, a contatto di gomito, tra miasmi e odori pesanti. Come quello del grasso geometra che, solo all’ennesima fermata, si toglie di torno. Se l’ascesa non è breve, non è neppure comoda. Sull’autobus ti può arridere la fortuna di stare seduto: sull’ascensore, tutti in piedi rigidamente impalati. Nel tempo corrente di emergenza sanitaria, un estenuante calvario.
In ascensore c’è l’obbligo di non fumare, però capita l’afrore del tale che il sigaro lo ha buttato appena prima di entrare. Vige pure il costume di tacere. Nessun parli, come nessun dorma della pucciniana Turandot. Qualsiasi “rumore di fondo” (capito quale?) è proibito. Gli imbarazzi non mancano. C’è il tale che tenta di leggere il giornale, l’altro tormenta il telefonino, oppure si gingilla con le chiavi di casa, chi prova ad attaccare bottone con la bionda dell’ultimo piano. Convive ad ogni viaggio, sull’ascensore, una fauna variegata, tutta residente nell’anonimato del grattacielo. Dove chi muore, muore, chi campa, campa.
Mi è capitato, in precedente età, di frequentare, all’EUR di Roma, gli uffici di un Ministero. Anzi, un Ministerone. La mattina, all’entrata, il piano terra si gremiva e, per una mezzora, la ressa davanti all’ascensore somigliava alla partenza di una gara di maratona. In uscita, la situazione era altrettanto aggrovigliata. Alla Fantozzi. L’ascensore – sia nei palazzi pubblici, sia in quelli privati – gioca in un ruolo da protagonista. Talvolta non troppo simpatico.
Tutto è affidato al cavo (non al caso). Cioè alle funi che tirano e mollano la cabina. Quando entri in un palazzo sconosciuto, il cavo qualche patema d’animo lo crea, ad ogni sussulto. Se la manutenzione non fosse stata accorta e si dovesse rompere, sai la frittata. Come in funivia. Un incubo diventa il blocco dell’ascensore, sovente aggravato dai momenti di panico di qualche viaggiatore, sofferente di claustrofobia. A meno che non ti capiti una avventura simile a quella cinematografica di Alberto Sordi, a Ferragosto.
Poiché il palazzo più alto del mondo sta a Dubai, seguiamo, per concludere, la quotidianità di un suo cittadino tipo, peraltro identico a milioni di suoi simili, condannati alla pena del cemento armato (leggi Roma, Londra, Parigi ecc. ecc.). Il cittadino abita in uno di quella selva di “papaveri” e lavora in un altro di pari gigantezza. Alla buon’ora, l’arabo di Dubai prende tacendo (mica perché è arabo) l’ascensore per guadagnare il marciapiede dove lo attende una sosta nervosa del pullman che non arriva mai. Poi, a bordo, sempre muto, nella consueta calca che, d’estate, sa di riscaldato. Se è d’ inverno e piove, ancora peggio. Spesso l’ufficio sta lontano e la città esagerata lo allontana di più. Nel caso, i mezzi da prendere, sempre in silenzio, sono più d’uno.
A destinazione, un altro ascensore lo aspetta per offrire la solita tacita salita in gruppo compatto. All’ora di pranzo, il panino o altre cibarie, da solo, al bar o sopra la scrivania. Dopodiché, il viaggio inverso, tacito e uguale. Manca solo il dopocena, senza parole, dinnanzi alla TV. Che completa la giornata quasi fosse all’insegna del nostro guerresco “taci, il nemico ti ascolta”. Te lo intimava il “faccione ingrifato” con l’indice dinnanzi alla bocca. Quel che non tace, anzi, frastuona, è la organizzazione urbana, inondata perennemente di cagnara quanto lo stadio del pallone. Insomma, una “parentesi di vita” – casa lavoro, lavoro casa – quasi da rottamare. Sia quel cittadino un arabo, un romano, un londinese, un parigino ecc. ecc. E lo chiamano progresso civile. Pover’uomo!
E siccome siamo sul semiserio, ecco una curiosità non molto conosciuta. Nel secolo XIII, in Umbria, è esistito un omonimo di quel personaggio – Uncle McDuke, vale a dire il taccagno Paperon de’ Paperoni – che abbiamo tutti conosciuto negli anni della fanciullezza, insieme a Topolino, Paperino e Nonna Papera. Quello della storia antica, era un frate dominicano, nominato dal Pontefice Clemente IV, Vescovo di Foligno e poi trasferito da Papa Onorio IV alla Diocesi di Spoleto. Paperon de’ Paperoni resse le due Diocesi dal 1265 al 1290 quando è morto. Sopra un muro del Palazzo Vescovile di Spoleto c’è una sua immagine con il nome latino sul cartiglio: Paperonus de’ Paperonis.